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Author Topic: Onoria e Attila secondo Antvwala  (Read 10937 times)

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Offline antvwala

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Onoria e Attila secondo Antvwala
« on: June 17, 2011, 10:01:09 am »
Il mio nome è Justa Grata Honoria


Sto scrivendo un lungo articolo storico biografico sulla figura di Onoria, figlia di Galla Placidia e sorella di Valentiniano III. Lo scrivo in modo un po' inconsueto, ovvero in prima persona. Aggiungo alcuni paragrafi relativi al breve soggiorno di Galla Placidia e dei suoi figli presso la corte di Costantinopoli, quando i rapporti con Onorio si guastarono, pensando egli che la sorellastra volesse detronizzarlo. Pochi mesi dopo Onorio morì, subentrò il breve governo dell'usurpatore Giovanni, e Galla Placidia rientrò in Italia dove, con il beneplatico di Teodosio II, il piccolo Valentiniano fu incoronato imperatore e sua madre governò quale reggente.
Che Galla Placidia e i suoi figli fossero bene accolti dall'imperatore d'Oriente, è un dato di fatto, dimostrato anche dalla numismatica (tanto Galla Placidia come la figlioletta Onoria apparvero quali auguste sui solidi). Così come è un dato di fatto che Teodosio II la aiuto a rientrare in Italia per insediarsi sul trono d'Occidente.

E' così che ho immaginato il primo incontro tra Galla Placidia e Teodosio II quando l'augusta giunse a Costantinopoli.

Qualunque critica, tanto al contenuto quanto alla forma utilizzata (il racconto in prima persona) è graditissima.
Grazie

Antvwala

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #1 on: June 17, 2011, 10:02:39 am »
"Il mio nome è Giusta Grata Onoria, sono un’augusta di Roma e in questa piccola cella del convento dove sono stata accolta (o sono prigioniera?), attendo che mi vengano a uccidere. Mio fratello, Flavio Placido Valentiniano, terzo augusto di Roma a portare – indegnamente – il nome dei Valentiniano, mi farà uccidere. L’Augusta Galla Placidia, madre nostra, finché fu in vita mi protesse: ma ora è morta e io attendo che vengano a prelevarmi da questa piccola cella monacale per condurmi al patibolo. Hanno detto che sono una traditrice di Roma: non condanneranno solamente il mio corpo, non si contenteranno di tagliare la mia testa, ma vor-ranno anche distruggere il ricordo della mia esistenza e infangare il mio nome. La damnatio memoriae sarà la sua vendetta. Non mi importa di morire: piuttosto che condividere il resto della mia vita con un vecchio senatore, Flavio Basso Ercolano, che mio fratello mi ha imposto per marito, preferisco morire: è per non compartire il suo talamo che mi sono rifugiata in que-sto sacro convento. Non sono codarde, come mio fratello, e non temo la morte, ma non voglio che il vile augusto, indegno di portare il glorioso nome dei Valentiniani, infanghi la mia me-moria. Per questo voglio scrivere questa nota, sperando che una monaca pietosa la raccolga e impedisca che vada distrutta.

Nacqui nel Sacro Palazzo della città di Ravenna, il giorno prima delle idi di novembre del-la XV indizione, essendo consoli gli augusti Onorio e Costanzo (12 novembre 417 ). Mio pa-dre fu l’augusto Flavio Costanzo, terzo imperatore a portare questo nome; mia madre fu l’augusta Placidia, figlia e nipote di grandi imperatori: il grande Teodosio, il primo imperatore a portare questo nome, era padre suo, mentre Valentiniano era suo nonno.
Flavio Costanzo, l’augusto padre mio, e mia madre Elia Galla Placidia, contrassero matri-monio poco meno di un anno prima che io nascessi. Allora egli aveva una quarantina d’anni, forse qualcuno di più, e fu un grande generale. Sconfisse ripetutamente i Goti e i Vandali, ma soprattutto i tiranni che a più riprese si proclamarono augusti: il britannico Costantino, che fu il terzo a portare questo nome, il gallo-romano Giovino e il greco Prisco Attalo, che con il so-stegno dei Visigoti fu due volte imperatore e legiferò dando ai suoi sudditi libertà di credere nel Dio che a loro piacesse, anziché in nostro Signore, unico vero Dio, come insegnano i no-stri vescovi di Roma. Non ricordo mio padre, che morì poco prima che io entrassi nel mio quarto anno di vita , e a mia madre non piaceva ricordarlo: mi raccontava, le rare volte che ri-spondeva alle mie domande, che era un grande generale, ma un uomo arido e rozzo. A corte, dove tutti parlano male di tutti, mormoravano che il generale Costanzo si fosse incaponito a contrarre nozze con mia madre, solamente perché ambiva al titolo di Augusto.
Galla Placidia, madre mia, quando fu celebrato il matrimonio con Costanzo e contempora-neamente fu incoronata augusta , entrava nel suo trentesimo anno  ed era vedova. Infatti, tre anni prima aveva contratto nozze con Ataulfo, re dei Visigoti, che l’aveva presa quale illustra prigioniera durante il sacco di Roma, per opera di suo cognato Alarico. Con Ataulfo ebbe un figlioletto, il mio fratellastro Teodosio, che morì qualche mese più tardi. Ataulfo poco dopo fu ucciso e il suo successore, Sigerico, la umiliò facendola camminare per dodici miglia come fosse una schiava.
Ben presto anche Sigerico fu ucciso e Vallia, il nuovo re visigoto, consegnò mia madre al generale Costanzo, che si era recato sino ai Pirenei per riceverla e che già da qualche tempo mirava a unirsi a lei in matrimonio.
Mia madre aveva un grande rimpianto per il figliolo perduto, Teodosio. Mi diceva che se non fosse morto, sarebbe stato un grande sovrano, degno successore di suo padre, Teodosio il grande, il primo imperatore ad avere questo nome. Credo che mio fratello Valentiniano fosse geloso del nostro fratellastro, che certamente sarebbe stato migliore augusto i quanto non lo sia lui: e come sarebbe possibile diversamente? E’ così sciocco questo fratello mio che tanto indegnamente riveste la porpora! Ma come poteva la madre mia pensare che il suo piccolo Teodosio sarebbe diventato un grande imperatore, se morì quando aveva solo pochi mesi di vita? Sarebbe stato il capostipite – diceva lei – di una nuova dinastia romano-visigota che a-vrebbe unito i due popoli per generarne uno nuovo assai migliore di entrambi, così come il rame si unisce allo stagno per generale il bronzo che supera ambedue i metalli.
I Visigoti – raccontava mia madre – sono come bambini, ma anche come cavalli selvaggi. Se si sanno prendere per il verso giusto e si domano, allora diventano dei magnifici puledri, capaci di essere fedeli al loro padrone sino alla morte. E la guardia visigota che ebbe mia ma-dre quando fu regina dei Visigoti, la accompagnò a Ravenna e le restò sempre fedele. I barba-ri – aggiungeva l’augusta Placidia, madre mia, quando era sicura che nessun’altra persona, tranne me, potesse udire le sue parole – possiedono virtù che un tempo anche i romani aveva-no, ma ora hanno perso e giustamente l’augusto Teodosio, mio nonno, avrebbe voluto domare i barbari non per sottometterli, ma per incorporarli nella romanità. Ella vedeva la decadenza e pensava che fosse causata dalla rapacità dei funzionari dell’impero, soprattutto nelle provin-cie, che spogliavano i coloni di ogni loro avere, sicché questi finalmente “vanno a cercare la civiltà romana presso i barbari, poiché la barbara civiltà dei romani è intollerabile; e benché divergano da costoro presso i quali si sono trasferiti per religione, lingua, vesti e addirittura per l’odore delle persone, preferiscono sopportarla diversità di fede presso i barbari piutto-sto che le ingiustizie e le sopraffazioni dell’amministrazione romana. […Ecco, allora, che i coloni e gli artigiani, oppressi dagli esattori fiscali e dalle legioni inviate a difenderli], preferi-scono che tutto vada in malora e, ben vengano i barbari purché finisca una buona volta quel regime che era loro divenuto insopportabile!” . Così parlava la madre mia ed io ascoltavo e assorbivo il suo intendimento e lo facevo mio, e sognavo già allora, ancora bambina, la libertà e la sincerità del vivere barbaro, e mi si faceva intollerabile il formalismo e la disciplina del vivere cortigiano e immaginavo che un giorno, come la madre mia, sarei andata tra questi bar-bari selvaggi e li avrei domati e resi amici e sudditi di Roma.
Quando la madre mia si unì in matrimonio con il re Ataulfo, a Narbonne, vi fu una grande festa. Era nel gennaio della XII indizione, essendo consoli Costantino e Costante (414): il so-vrano goto – narrava mia madre – aveva dimesso le brache e la giubba di pelliccia, come ve-stono i barbari, e indossava il paludamentum: giunsero sino a me cinquanta paggetti vestiti di seta e ognuno aveva un grande vassoio d’argento, colmo di ori, gioielli e pietre preziose, frut-to di quanto colto dal re Alarico quando saccheggiò Roma . E tutte le fu donato, ma poi Sige-rico glielo tolse e Vallia non glielo rese, ma restò e quello fu il tesoro della corte visigota.
Quando la madre mia tornò a Ravenna accompagnata dal generale Costanzo, l’augusto Onorio, zio mio e di lei fratellastro, le impose il matrimonio con il generale: sicché lei che fu regina tra i Visigoti, visse come prigioniera presso i romani, anche se quando si unì in matri-monio a Costanzo ricevette il titolo di augusta. Questo non me lo disse mai, ma io quando crebbi e diventai donna, lo compresi appieno. Questo matrimonio fu celebrato nel mese di gennaio della XV indizione, essendo consoli gli augusti Onorio e Costanzo (417) e la vita dell’imperatore Costanzo, padre mio, giunse al suo termine il giorno successivo alle calende di settembre della IV indizione, essendo consoli Eustachio e Agricola (2 settembre 421). Do-po che la vita dell’augusto Costanzo giunse a conclusione, mia madre Placidia si dedicò per intero al bene della cosa pubblica e affiancò l’inetto fratellastro suo, l’augusto Onorio, debole di mente ed eunuco nello spirito, anche se non nel corpo
."
"

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #2 on: June 17, 2011, 10:03:27 am »
II

Di quando in quando, una monaca chiede licenza per entrare nella mia cella e informarsi se ho bisogno di alcuna cosa, o cosa desidero desinare, e se potrei trovare giovamento dal consi-glio del mio pietoso e ottuso confessore. Non mi guarda mai direttamente in volto, come è giusto che faccia, e quando esce lo fa camminando a ritroso, senza mai darmi le spalle. Eppu-re, nonostante l’etichetta sia rispettata, percepisco il suo disprezzo e la sua rabbia nei miei confronti: anche per lei, piccola monaca che nulla sa di cosa sia il mondo oltre le alte e austere mura del convento, io sono una traditrice della patria, la causa di tante sventure che solo il grande pontefice romano, Leone, affrontando il re unno poté in qualche modo contenere. Ma io non sono una traditrice: devo continuare a scrivere queste note, anche se temo che non sa-ranno conservate ma distrutte.

All’inizio dell’anno successivo (423), mi fu conferito l’onore di fregiarmi del rango di au-gusta , pur essendo appena entrata nel mio sesto anno di vita, quando il fratello mio Valenti-niano non possedeva ancora questo rango. Così volle l’augusto Onorio, poiché l’augusto Teo-dosio nel gennaio di quello stesso anno aveva attribuito questo stesso titolo alla sua nobilissi-ma sposa Atenaide, che assunse il nome di Elia Eudocia.
Morto l’augusto Costanzo padre mio, che fu un grande e temuto generale, nella Spagna i federati Vandali sconfinarono, occupando territori romani. Furono inviati alcune legioni per ristabilire l’ordine nella regione, poste al comando dei magister militum Bonifacio e Castino, i quali entrarono tra loro in conflitto, sì che il primo rinunciò al comando e si diresse a Cartagi-ne. I federati Visigoti, dei quali la madre mia Placidia era regina, non tennero fede al loro im-pegno e si accordarono con i Vandali. Quando la notizia giunse a Ravenna – fu quando mi venne conferito il rango augusteo – dapprima a corte e poi anche la plebe nelle strade, accusa-rono mia madre di complottare con i Visigoti per rovesciare il legittimo imperatore e dare la porpora al suo stesso figlio, assumendone la reggenza, oppure a Bonifacio convogliando con lui a nuove nozze; e che la guardia personale dell’augusta Placidia fosse visigota e solo a lei fedele, diede ali alla maldicenza.
Forse il fatto che la sorellastra dell’imperatore avesse il potere di una reggente, pur essendo più giovane dell’augusto, fu la ragione per cui l’invidia nei suoi confronti si convertì in mal-dicenza e questa ben presto in odio e calunnia e, purtroppo, l’augusto Onorio, che pochi mesi dopo sarebbe morto, ormai era con la mente affatto malata e vedeva in tutti dei nemici pronti a cospirare per togliergli la porpora, sicché faceva molto caso alle calunnie che circolavano a corte.
Vedendo che il fratellastro dava ascolto alla maldicenza e temendo per la propria vita e per quella nostra, figli suoi, all’inizio della VI indizione, essendo consoli Asclepiodoto e Mari-niano (423), l’augusta Placidia preferì che ci allontanassimo da Ravenna e riparassimo tutti tre a Roma. Allora io ero appena entrata nel mio sesto anno di vita e mio fratello Valentiniano nel quinto; godevo di due buoni precettori, uno per la grammatica e la storia e l’altro per le cose della fede: tuttavia non comprendevo quanto stesse succedendo, ma percepivo l’agitazione di coloro che mi circondavano, così come il timore per quanto potesse avvenire. Agì con sag-gezza, poiché eravamo appena arrivati nell’Urbe quando giunse a mia madre un decreto con il quale il suo fratellastro le imponeva di abbandonare l’impero d’Occidente. Dovemmo, dun-que, riparare a Costantinopoli, presso la corte di Teodosio, il secondo imperatore con questo nome, figlio di Arcadio e nipote di Teodosio il Grande. Fu grazie all’aiuto di Bonifacio, che ci diede quando necessario, che potemmo imbarcarci con la nostra piccola corte e far vela verso la Roma dell’Oriente, dove giungemmo nel maggio di quello stesso anno.




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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #3 on: June 17, 2011, 10:04:24 am »
Ricordo il viaggio sulla galea, anche se in modo molto confuso. Tutto m’incuriosiva, avevo sempre delle domande da porre, mi sembrava di vivere un’avventura. Mio fratello Valentinia-no, che non aveva ancora la dignità di augusto, invece, si annoiava e non provava curiosità per nulla. Ma quando giungemmo a Costantinopoli, rimasi sbigottita! Ravenna era un borgo misero e sporco, al suo confronto! E anche Roma, nonostante la sua vastità e tutti i suoi mo-numenti, non poteva rivaleggiare in bellezza con la capitale dell’Oriente.
Era il pomeriggio inoltrato quando Costantinopoli apparve ai miei occhi: alle mie spalle il sole era basso e davanti a me, sulla sponda collinosa, si distendeva una città incredibile, dove i tetti e le cupole erano d’oro! Mi fu spiegato che m’ingannavo, che sembravano tali, ma era-no ricoperti da tegole di rame dorato: ma le spiegazioni non m’interessavano; da allora nella mia fantasia Costantinopoli rimase la città dai mille tetti d’oro. A mano a mano che ci avvici-navano al porto, la città acquistava vita: le strade salivano e scendevano per la collina, affolla-te da una miriade di persone, portantine, cavalieri sui loro cavalli: non riuscivo a staccarmi da quell’immagine e dovettero insistere per far sì che mi preparassi a sbarcare. Ero eccitatissima, mentre la mia augusta madre sembrava triste, preoccupata.
Attendemmo a lungo in un grande salone nel palazzo del magister del porto, mentre un servitore si era recato a corte a dare notizia del nostro arrivo. Era già prossima la notte quando vennero a riceverci con alcune lettighe. Mentre percorrevamo una via che saliva verso il sacro palazzo, disubbidendo alla madre mia, scostavo leggermente la cortina per guardare fuori: al-lora dimenticai gli insegnamenti dei miei precettori che m’insistevano affinché non mostrassi mai segno di giubilo, né di pena, né di stupore. Ma come non stupire vedendo che la via era tutta illuminata da lumi posti sulle facciate delle case, e così pure le vie laterali che sbucavano in quella che percorrevamo: era come se il cielo stellato, anziché restare immoto lodando la gloria di Dio, fosse disceso sino a noi, celebrando la gloria della capitale d’Oriente .
Mentre a Roma, ovunque si guardasse, si vedevano enormi palazzi e templi un tempo mae-stosi ma ora trascurati, quando addirittura non ridotti a rovina, a Costantinopoli tutto era nuo-vo e ovunque si vedevano edifici in costruzione. Nonostante ormai fosse notte, per le strade vi era tale vivacità che pareva fosse l’ora quando il sole, nel suo percorso intorno alla terra, rag-giunge la sua massima altezza nel cielo.
Il Sacro Palazzo pareva una città dentro della città, circondata dalle mura e con una suntuo-sa porta d’entrata, presidiata da numerosi legionari: al suo interno, palazzi e basiliche, corti e fontane, obelischi e oratori. Ci condussero a un palazzetto di due piani, dove finalmente ci si-stemammo: “Ci troviamo nella domus placidiana – raccontò la mia augusta madre – Questo palazzo fu costruito per mia madre Galla: è qui dove sono nata e dove ho trascorso i miei pri-mi anni di vita”. Fu durante l’indizione VII, essendo consoli Teodosio e Abbondanzio (393), che lei fu portata a Ravenna e affidata alle cure di Serena, figlia adottiva del grande Teodosio e sposa di Stilicone, e allora lei aveva la stessa età che io ho ora, era nel suo sesto anno di vita, sicché per lei tutto era novità ma molto era anche ricordo.

 



PS) Per quanto concerne la descrizione della Costantinopoli teodosiana, mi sono basato sul libro di Procopio, De Aedificiis. Verso gl’inizi del V secolo, Costantinopoli iniziò a dotarsi di un sistema di illuminazione notturna che venne completato durante la prefettura di Ciro di Panopoli (dal 426 al 441), quando si estese all’intera città, sbalordendo i viaggiatori, come narrano alcuni cronisti dell’epoca.

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #4 on: June 17, 2011, 10:05:40 am »
III

Il mio calamo d’avorio scivola bene sulla pergamena, morbida e ben acconciata. Mi fermo a osservare quanto ho già scritto: la mia grafia, spesso celebrata dai miei precettori, è minuta ed elegante, nitida e precisa, piacevole a leggersi. La piccola finestra della mia cella guarda al chiostro: il rumore dell’urbe giunge ammorbidito e confuso, a guisa del brusio dei calabroni che svolazzano intorno a un alveare lontano. Tra i rami degli alberi del chiostro vi sono nume-rosi uccelli il cui canto mi distrae, il tempo di una breve pausa prima di intingere il calamo nel botticino dall’inchiostro color porpora e di ritornare a queste note alle quali affido la mia me-moria e la difesa del mio buon nome.

Nel pomeriggio del giorno successivo al nostro arrivo, ci presentammo a corte per rendere omaggio al mio augusto cugino, l’imperatore Teodosio, e alle auguste Elia Pulcheria, sorella sua, e Atenaide Elia Eudocia , la sua giovane sposa. L’augusta mia madre era preoccupata all’idea di incontrarsi con l’imperatore Teodosio, figlio del suo fratellastro. Nei frequenti con-tatti epistolari che erano intercorsi tra le due corti, ai quali spesso aveva avuto accesso quale massimo consigliere dell’augusto Onorio, le era parso che l’imperatore d’Oriente fosse una persona pragmatica, piuttosto diretta. E ora, sin dal primo colloquio, che seguì immediata-mente al nostro arrivo nella capitale, ne ebbe la prova.
L’augusto Teodosio ci ricevette nel salone delle udienze: ci era stato spiegato lungamente quale fosse l’etichetta di corte e come anche le nostre auguste figure avrebbero dovuto ade-guarcisi. Quando entrammo nel salone delle udienze, l’imperatore era assiso sul trono: accan-to a lui sedevano l’augusta Pulcheria e alla sua sinistra l’augusta Eudocia; era anche presente il patriarca di Costantinopoli, l’anziano Attico . Io me lo immaginavo assai più solenne l’imperatore: invece era un giovinetto di bell’aspetto e dal volto simpatico, seduto su un mae-stoso trono che sembrava scolpito nell’oro, con un globo aureo sormontato da una croce nella sua mano sinistra e una spada nella destra. L’augusta Pulcheria, invece, era una donna asciut-ta, dall’espressione arcigna, che m’incuteva timore e fastidio, mentre in quanto alla sposa sua, l’augusta Eudocia, non avevo mai visto prima di allora una donna più aggraziata ed elegante di lei. Ordinò alle altre persone di lasciarci soli e immediatamente si allontanarono tutti, tran-ne le sue guardie personali che rimasero in disparte, rigidamente sull’attenti, le sue auguste e il patriarca. Fummo accolti con freddo formalismo, anche se non fu in modo scortese, e dopo aver ricevuto il nostro doveroso omaggio, l’imperatore diede per terminata l’udienza. L’augusta Placidia madre mia ne rimase assai delusa e scontenta.
Nei mesi successivi, fummo liberi di girare per Costantinopoli e attendere alle nostre fac-cende. Conservo un bel ricordo di quel periodo, poiché insieme a mio fratello avemmo molte occasioni per conoscere questa città così bella, dove tutto è nuovo e ovunque si costruiscono palazzi e delle nuove mura molto alte e maestose, al contrario di Roma dove tutto sembra crollare o in stato di abbandono e sono molti i palazzi e templi che si stanno demolendo e molto pochi quelli che si stanno edificando. Vedemmo l’acquedotto di Valente e la colonna ove erano scolpite le vittorie del primo augusto Teodosio; da una galleria di una delle chiese che fiancheggia l’ippodromo potemmo vedere non viste le corse dei cocchi.
In quei frangenti, il generale Bonifacio ci fu di grande sostegno, poiché dall’augusto Ono-rio non ci giunse nessun aiuto e non avevamo molti mezzi per mantenerci con il nostro minuto seguito nella capitale dell’Oriente, al quale ben presto si aggiunse il generale Candiano, amico di Bonifacio e anch’egli protettore della mia augusta madre .
Il XVII giorno prima delle calende di settembre di quello stesso anno (15 agosto 423), a Ravenna morì l’imperatore Onorio, ma la notizia giunse a Costantinopoli solamente verso la fine del mese di agosto. Mia madre, quando seppe la notizia, mostrò apertamente di volersi conformare alla volontà dell’imperatore d’Oriente, evitando di sollecitare il trono di Roma a favore del mio pigro e tonto fratello. Questi, dal canto suo, non sembrava voler prendere nes-suna decisione, mentre la sua augusta sorella, Pulcheria, gli proponeva di assumere per se an-che la corona occidentale e nuovamente riunire l’impero sotto una sola mano, come lo fu al tempo del loro nonno, il grande Teodosio. Poiché alla morte dell’augusto Onorio, il patricius Flavio Castino, che avversava la mia augusta madre, era emerso quale uomo forte della situa-zione, l’imperatore Teodosio non volle inimicarselo e decise, con grande disappunto della madre mia, di conferirgli il consolato per la VII indizione (424), con Flavio Vittore. L’augusta Galla Placidia ne fu disgustata: ciò non di meno, non diede mostra alcuna di opporsi alla deci-sione imperiale.
Tuttavia, la situazione mutò ben presto. Non pago dell’onore ricevuto quando gli fu confe-rito il consolato, durante la medesima indizione il patricius Castino cospirò con il Senato, so-prattutto con quei membri che ancora non avevano abbracciato la vera fede in Cristo, affinché eleggessero quale nuovo imperatore Giovanni Primicerio, decano dei funzionari civili . Fu allora che l’augusto Teodosio ruppe ogni indugio e fummo nuovamente invitati a corte.
Questa volta fummo accolti in ben diversa maniera: la freddezza e la brevità del primo in-contro vennero sostituita dalla cordialità e da una lunga conversazione, e, non appena gli e-stranei si allontanarono e restò solamente la famiglia imperiale, anche il formalismo venne a meno. L’imperatore si rivolse a noi con affabilità, facendoci sedere e chiedendoci come stes-simo e se avessimo bisogno di qualcosa e, dopo questi brevi convenevoli, si rivolse alla mia augusta madre affrontando senza indugio i temi che più gli stavano a cuore.
 

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #5 on: June 17, 2011, 10:06:30 am »
Io ascoltavo in silenzio, composta, prestando attenzione a quanto veniva detto, anche se non ne comprendevo il senso. Mio fratello, invece, faticava a stare fermo, ma non gli fecero caso, anche se nostra madre più volte lo riprese. Anche se non intendevo il senso dei detti dell’imperatore, ciò non di meno prestavo molta attenzione: perciò non mi sfuggì quando dis-se all’augusta mia madre “di non essere filo gotica, Elia Placidia. Noi dobbiamo porre i barba-ri gli uni contro gli altri, dividerli per poterli dominare”. Prima di allora, non avevo mai senti-to nessuno rivolgersi alla madre mia chiamandola Elia anziché Galli. Poi l’imperatore conclu-se dicendo che ci conferiva a entrambe l’onore di poterci fregiare del titolo di augusta, che già ci era stato dato dall’imperatore Onorio, ma che egli non aveva riconosciuto.
Prima che l’udienza avesse termine, l’augusta Pulcheria si rivolse a me, domandandomi dei miei studi e dei miei precettori e informandosi soprattutto sulla mia conoscenza di quanto concerneva la fede cristiana: risposi con garbo alle sue domande, le dissi quanto amassi lo studio, che già da oltre un anno mi stavo applicando alla conoscenza delle lettere e che riusci-vo a scrivere e a leggere, e che, tra i miei precettori, vi era anche un filosofo greco (“è cristia-no?”, domandò la sorella dell’imperatore, “certamente, augusta zia e signora mia”, risposi u-milmente) che m’insegnava l’armoniosa lingua di Atene. Volle, allora, l’augusta Elia Eudocia rivolgersi a me in greco, ed io le parlai nella stessa lingua che sin da piccola comprendevo es-sendo anche parlata dalla madre mia, Placidia. E mi resi conto che le due auguste si compiac-quero per le mie risposte.
L’augusta mia madre assentì a ogni intendimento dell’imperatore d’Oriente. Ella, infatti, si rese conto che, sia pure con la cordialità che corrispondeva all’incontro di due famigliari, l’imperatore Teodosio stava valutandola per comprendere se aveva i numeri necessari per es-sere la futura reggente dell’impero d’Occidente, essendo mio fratello l’unico discendente del-la casa del grande Teodosio, ma ancora molto lontano dalla maggiore età. Soprattutto valuta-va se davanti a se aveva una persona che sarebbe stata ossequiosa alla corte orientale, accet-tando quella supremazia che di fatto aveva: un suo strumento, insomma. E certamente mia madre superò la prova e anch’io, nonostante la mia corta età, venni ossequiata come si con-viene a un’augusta.
Terminata l’udienza, tornammo alla domus placidiana. Allora dissi a mia madre come l’augusta Pulcheria fosse parsa ai miei occhi assai più imperatrice di quanto l’augusto Teodo-sio fosse imperatore: mi guardò attentamente, stupita da questa mia osservazione e mi rispose: “potresti avere ragione, e un giorno comprenderai quanto; tuttavia ciò che hai appena detto tienitelo per te e che non esca mai dalla tua bocca, ma non dimenticarlo!”. Le domandai anche perché l’imperatore si fosse rivolto a lei chiamando Elia anziché Gallia : fu così che seppi che il rapporto tra Gallia, sua madre, e i suoi fratellastri, gli augusti Onorio e Arcadio, non fu buono e che proprio per questa ragione il grande imperatore Teodosio, il primo con questo nome, fece edificare la domus placidiana e glie la donò quale dimora, affinché restasse in Co-stantinopoli, mentre in quegli anni egli viveva a Milano con i suoi due figli.
Poi mia madre si affrettò ad annotare su di una pergamena tutto quanto le fu detto nel col-loquio. Poiché il mio precettore di grammatica voleva che ogni giorno dedicassi un certo tem-po a esercitarmi copiando sulla mia tavoletta di cera un testo, essendo che la madre mia aveva una bella calligrafia, la cui lettura mi risultava facile, fu così che più volte copiai gli appunti della madre mia, ora una parte, ora un’altra, e per questa ragione, pur non comprendendoli al-lora, mi restarono sempre freschi nella mia memoria.
In essi mia madre aveva annotato che l’augusto Teodosio II intendeva istituzionalizzare l’aspetto dinastico, in quanto i conflitti che così spesso sorsero alla morte di un augusto tra i pretendenti al trono, avevano dissanguato l’impero; riteneva che i barbari fossero troppo valo-rosi per essere sottomessi con la forza, ma troppo pericolosi per essere lasciati liberi senza controllo e che, pertanto, l’unica via possibile era civilizzarli, trasformarli gradualmente in cit-tadini e, finalmente, assimilarli nell’impero, e solo allora dar loro incarichi di rilievo e accet-tarli nelle nostre case, e che era questa la ragione che lo spingeva a dare un contributo al re unno Ruga, purché restasse in pace e al servizio di Roma; con questo proposito consentiva che i figli di alcuni condottieri unni si educassero a corte, cambiando così la loro visione della vita, mentre allo stesso tempo i legati di Roma sedevano spesso con il re e i suoi più stretti collaboratori, facendogli comprendere il vantaggio del vivere in modo consono al diritto e del rispetto dei trattati; non era per codardia che elargiva denaro ai barbari, me per far sì che ab-bandonassero il nomadismo e, abituandosi alla pace, non rimpiangessero più la guerra; così pure attribuiva importanza all’esperienza vissuta dall’augusta Placidia presso la corte visigota, giungendo a esserne regina, essendo lungi da lui l’idea di riprovarla; riteneva che per il bene dell’impero tutto e di entrambe le sue parti era opportuno che l’Illirico fosse amministrato di-rettamente dalla capitale dell’Oriente, e non più da quella occidentale; e che era opportuno che le leggi promulgate nei secoli dagli imperatori di Roma fossero da lui riordinate. 
Tuttavia, più tardi, mi sarei resa conto di quanto variegato fosse il pensiero della corte d’Oriente, essendo l’augusto Teodosio dominato dalla forte personalità della sorella, l’augusta Pulcheria, di due anni più anziana dell’imperatore, la quale avversava profondamente il mon-do germanico e avrebbe voluto – se solamente fosse stata cosa possibile! – la loro totale e de-finitiva distruzione, non la loro assimilazione. Mi stupisco rendendomi conto di come ricordo bene quell’incontro, pur essendo allora così piccola: giustamente dice il mio precettore che ho ricevuto il dono di una memoria straordinaria!
Mentre prima, pur vivendo all’interno delle mura del sacro palazzo, non partecipavamo al-la vita della corte, ora, invece, le nostre tre persone ne venivano costantemente coinvolte.
La vita di corte era molto noiosa. Furono tutti molto garbati nei nostri confronti: ma biso-gnava parlare sempre bisbigliando ed era considerato molto sconveniente ridere, o anche solo sorridere. Tutte le mattine veniva celebrato il sacro rito in memoria dell’ultima cena del Naza-reno e due o anche tre volte il giorno ci si raccoglieva in preghiera in uno degli oratori del sa-cro palazzo. L’augusta zia Pulcheria era molto esigente in ogni cosa, ma soprattutto era in-transigente per tutto quanto concerneva la religiosità: due volte la settimana si praticava l’astinenza dalle carni e dai dolciumi e, in segno di umiltà, si mangiava in basse scodelle di legno. La mia augusta madre, a Ravenna non era così attenta alle pratiche pie: qui a Costanti-nopoli, invece, si mostrò altrettanto scrupolosa quanto l’augusta Pulcheria.
Durante la V indizione, essendo consoli gli augusti Teodosio e Onorio (422) , il cugino mio e imperatore dell’Oriente Teodosio aveva celebrato vent’anni da che fu coronato augusto, ciò che avvenne quando ancora non era entrato nel suo secondo anno di vita, e come è con-suetudine, aveva voluto celebrare l’evento con una coniazione votiva , alla quale si aggiunse-ro anche monete con i nostri due nomi; non quello del fratello mio, in quanto non gli era anco-ra stato conferito il titolo di augusto. Fu la prima volta che venne coniata una moneta con il mio nome, DN IVST GRAT HONORIA PF AVG, e il mio ritratto, anche se in esso appaio nelle sembianze di una donna e non di una bambina: ma mia madre mi disse che questo era l’uso.
 

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #6 on: June 17, 2011, 10:07:28 am »
In modo particolare, mi interessa conoscere il vostro punto di vista su come abbia io interpretato la logica e la strategia di Teodosio II.

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #7 on: June 17, 2011, 10:14:08 am »
" IV

Dopo la terza preghiera, ecco che sono nuovamente tornata nella mia cella, seduta davanti allo scrittoio. Tre volte il giorno le monache mi vengono a chiamare per accompagnarle nell’oratorio e unirmi alle loro sussurrate preghiere e alle loro lugubri cantilene. Con che pia-cere rinuncerei alle une e alle altre! Ma ne sarebbe immediatamente informato l’augusto Va-lentiniano e Leone, il sommo pontefice dei cristiani che vorrebbe la mia testa: il mio rifiuto confermerebbe l’accusa che mi hanno mossa, di essere agnostica e di simpatizzare con gli ere-tici e i pagani, e allora proprio non avrei più salvezza, né mi sarebbe permesso di scrivere queste mie note. Io sono cristiana, non sono pagana: ma non comprendo come possono i cri-stiani, in nome di Gesù, ammazzarsi tra loro, divisi in dispute eterne: se il Cristo sia piena-mente o solo parzialmente uomo, se gli angeli abbiano sesso, se le donne possano essere am-messe ai riti quando hanno la loro regola… L’insegnamento del Nazareno era un invito all’amore, non all’intolleranza: ma in quanto ad amore e tolleranza, i pagani sono assai supe-riori ai cristiani. Ma il tempo passa, non so quanto mi resterà ancora da vivere e voglio con-cludere questa mia nota prima che vengano a prelevarmi.

Quando il tiranno Giovanni ebbe l’ardire di indossare la porpora, in breve tempo la nostra vita cambiò profondamente e ci preparammo a rientrare in Italia con l’appoggio dell’esercito dell’impero d’Oriente: infatti l’imperatore Teodosio il IX giorno prima delle calende di no-vembre della VII indizione, essendo consoli Vittore e Castino (23 ottobre 424), aveva conces-so a mio fratello Valentiniano il titolo di Cesare e aveva anche stabilito che avrebbe poi spo-sato con Licinia Eudossia, sua figlia, così da mantenere unite le due corti, e che la madre mia sarebbe stata reggente sino alla sua maggior età . Nel frattempo, d’intesa con l’augusto, ci e-ravamo recati a Tessalonica per prepararci a raggiungere Salona, sulla costa dalmata, e da lì fare ritorno in Italia.
Intanto il generale Bonifacio, fedele all’amata augusta Placidia, rifiutò di obbedire all’usurpatore Giovanni e impediva che dall’Africa giungessero a Roma grani, oli e gli altri prodotti. Il generale Aezio, invece, fedele a Castino e all’usurpatore, mosse verso l’accampamento di Ruga, sovrano degli Unni, per sollecitare il suo aiuto: Ruga lo concesse, più per amicizia verso Aezio che per inimicizia verso Teodosio.
Alla fine di quello stesso anno, le legioni che l’imperatore Teodosio aveva destinato a ri-pristinare la legittimità imperiale nell’occidente, si trovavano a Salona al comando di Ardabu-rio, un alano, e di suo figlio Aspar. Noi accompagnavamo l’esercito con la nostra piccola cor-te: insieme a noi venne anche Elione, il magister officiorum dell’imperatore d’Oriente. A Sa-lona, l’esercito si divise in due parti: una, al comando di Aspar, avrebbe raggiunto Ravenna via terra; l’altra, al comando di Ardaburio, si sarebbe imbarcata per raggiungere l’Italia via mare. Vi era anche una terza armata, più piccola delle altre due, che pagandola di tasca pro-pria aveva messo insieme il generale Candidiano, fedele amico di mia madre: questa avrebbe assicurato che Roma e le altre città italiane si mostrassero fedeli al casato della madre mia .
Anche noi c’imbarcammo nella piccola flotta, ma incappammo presto in una terribile tem-pesta, che separò le navi: così terribile, che credemmo perse le nostre vite. Nostra madre Pla-cidia ci abbracciava, piangeva e pregava, e noi piangevamo e pregavamo con lei. La tempesta spingeva le nostre navi verso la spiaggia adriatica, là dove vi era una costa rocciosa e alcune furono fatte a pezzi. Allora mia madre affidò le nostre anime all’evangelista Giovanni e gli promise che avrebbe edificato una grande basilica in suo onore, e l’evangelista ebbe pena del-le nostre sofferenze e permise che la nave sulla quale eravamo imbarcati potesse fare ritorno a Salona senza naufragare. Dopo questa terribile avventura, che a ricordarla ancora m’incute timore, la mia augusta madre decise che ci unissimo a quella parte dell’esercito che era al co-mando di Aspar e che si stava preparando a raggiungere Ravenna percorrendo la strada costie-ra .
Ravenna, assediata, nell’estate successiva si arrese. L’usurpatore Giovanni fu portato ad Aquileia, dove la mia augusta madre aveva deciso di fermarsi insieme a noi per attendere la conclusione degli eventi: quivi dapprima gli venne mozzata l’empia mano che firmò il decreto con il quale pretendeva che chiunque potesse professare liberamente la sua religione, anche se pagana o eretica , poi fu torturato e schernito pubblicamente, e infine fu ucciso. Al terzo giorno dopo che il tiranno fu giustiziato, giunse Aezio con un esercito unno forte di 60000 ca-valieri, che fu affrontato dal generale Aspar, con grandi perdite per entrambi e senza che si giungesse a una conclusione. Ma essendo ormai morto il tiranno, i due generali concordarono la cessazione dei combattimenti, in cambio del perdono per Aezio, al quale venne concesso il titolo di Conte. Anche il patricius Castino fu perdonato, e se il primo lo fu per necessità, il se-condo lo fu per volontà dell’imperatore Tedosio .
Entrammo in Ravenna, trascorremmo qualche tempo nel palazzo imperiale, e quindi c’incamminammo per Roma, dove tornammo a occupare il sacro palazzo. Dedicammo un paio di mesi alla preparazione della cerimonia d’incoronazione: il magister officiorum ci inse-gnava – soprattutto a mio fratello – come dovevamo e non dovevamo muoverci, a restare im-passibili anche se una noiosa mosca ci stuzzicava il naso, a guardare sempre davanti a noi, senza mostrare quasi segno di vita, con un’espressione sul volto più consona a dei che a esseri umani. Finalmente, dieci giorni prima delle calende di novembre (23 ottobre 425), mio fratel-lo Valentiniano indossò la porpora e ricevette l’adoratio dei senatori e degli astanti: avrebbe dovuto essere lo stesso cugino suo e imperatore, l’augusto Teodosio, a conferirgliela; ma poi-ché quando già era in viaggio, trovandosi a Tessalonica s’ammalò, inviò in sua vece il magi-ster officiorum Elione, che ci raggiunse a Roma e fu il regista di tutta la cerimonia. Allora, ovviamente, non potevo comprenderlo, ma l’incoronazione di mio fratello, fatta senza neppure una parvenza di elezione da parte del Senato, fu una deliberata offesa ai senatori da parte dell’imperatore e del pontefice Celestino, per castigarli per aver eletto il tiranno Giovanni e aver appoggiato le sue empie leggi che ristabilivano il culto agli dei antichi.
Mio fratello fu il terzo imperatore a portare il nome dei Valentiniani, ma quanto sarebbe stato meglio se non fosse mai stato incoronato! Egli era, allora, nel suo settimo anno di vita, ed io stavo per entrare nel mio nono.
Restammo a Roma ancora molti mesi e fu solamente nei primi giorni del mese di marzo della IX indizione (426) quando finalmente facemmo ritorno a Ravenna, essendo consoli gli augusti Teodosio e Valentiniano. 
Che delusione! Che disastro! Erano trascorsi meno di tre anni da quando dovemmo allon-tanarci dal sacro palazzo, dall’aspetto forse un po’ severo, ma grandioso: le corti interne ab-bellite da giardini, gli affreschi dei saloni, le ricche suppellettili d’argento, le statue di marmo, l’oratorio e la cappella con i loro ori, tutto era stato distrutto, saccheggiato, deturpato. Percor-revo i nostri alloggi, insieme all’augusta madre mia e non potevo darmi pace. “Furono i buc-cellari del tiranno Giovanni?”, domandai. “No” mi fu risposto, “furono i legionari di Ardabu-rio e di Aspar…”. “Ma non capisco: loro ci difendevano e combattevano il tiranno: perché al-lora hanno fatto questo?”. “Il saccheggio è la paga dei legionari”, rispose mia madre. “Ma io credevo che erano i barbari quelli che saccheggiavano le città dell’impero… non i soldati di Roma!”. “Capirai quando sarai più grande”, ribatté molesta l’augusta Placidia, ed io mi resi conto che quanto dicevo era inopportuno.
Non solo il sacro palazzo, ma tutta Ravenna mi parve desolata, soprattutto dopo aver cono-sciuto lo splendore di Costantinopoli. In quest’angusta e malinconica città lagunare, le pareti crollavano e le acque stagnavano, le torri slittavano e le navi s’insabbiavano, i ladri vegliava-no e le guardie dormivano, i mercanti si battevano e i soldati trafficavano, i preti prestavano denaro a usura e i siriaci cantavano i salmi , sicché mi pareva d’esser prigioniera. Non aven-do nessuno svago e nessuna compagnia, solo mi restò dedicarmi con sempre maggiore impe-gno allo studio e alla lettura.
Nonostante la distruzione subita dalla città, l’augusta mia madre volle ugualmente festeg-giare il nostro rientro e l’incoronazione di mio fratello, l’augusto Valentiniano, facendo conia-re una grossa moneta d’oro, o piuttosto un medaglione, che poi fu fatto incastonare come un gioiello e donato ai Senatori dell’impero e a tutti i più importanti dignitari della corte. Un me-daglione che serbo ancora e che porto appeso a una collana poiché amo molto il ritratto di mia madre che vi è raffigurato.
Sino ad allora, mio fratello ed io avevamo gli stessi precettori per la grammatica, la geome-tria, la filosofia, la storia e l’insegnamento della fede. Io, però, ero un’alunna molto applicata, che riuscivo bene in tutto; mi fratello, invece, stentava e si annoiava. Tanto io mi appassiona-vo con il sapere, quanto lui con le attività ginniche: la lotta, la corsa, il salto. Ora, però, ci se-pararono: a me rimasero i precettori che già avevano, ma lui ne ebbe di nuovi, e ne fui conten-ta. Rispettavo mio fratello, augusto e imperatore, ma certamente non lo amavo, e neppure lo stimavo.
Quando ebbe inizio la X indizione, essendo consoli Ierio e Ardaburio (427), io oramai ero entrata nel mio decimo anno di vita: ero piuttosto alta e magra e dimostravo più della mia età. Soprattutto mi sentivo molto sola e rimpiangevo quando, alla corte di Costantinopoli, avevo l’augusta madre mia spesso con me, rispondeva alle mie domande, uscivamo insieme a visita-re la città. Ora gli incontri erano rari: soprattutto la vedevo quando si celebrava rito quotidiano di fede con il quale iniziava la giornata, ma avevo poche occasioni di parlare con lei. Era sempre impegnata con mille funzionari. L’augusto fratello mio Valentiniano, invece, la vede-va spesso e insieme sedevano nel salone delle udienze quando ricevevano le suppliche o i re-soconti dei funzionari: in quelle occasioni, parlava solamente l’augusta Placidia, mentre l’imperatore sedeva immobile sul suo trono, guardando fisso davanti a se. Credo che avesse imparato l’arte di addormentarsi restando con gli occhi aperti!
Avvenne, un giorno, che io incontrassi una miniatura scampata allo scempio che fece se-guito alla conquista del sacro palazzo da parte delle legioni di Ardaburio: in essa, appariva una donna sconosciuta, molto bella e con un viso dolcissimo, forse di una trentina d’anni. In-curiosita, ma anche attratta da quel viso, conservai la miniatura; alcuni giorni più tardi, quan-do la mia augusta madre trovò un po’ di tempo per trascorrerlo con me, informandosi dei miei progressi negli studi e nei comportamenti, le mostrai il piccolo ritratto e le domandai chi fosse quella donna. L’augusta Placidia lo prese tra le sue mani e l’osservò in silenzio: poi dai suoi occhi sgorgarono grandi lacrime e pianse a lungo, sempre restando muta. Finalmente mi dis-se: “questa è Serena, che per me fu come una madre”. “E ora dov’è?”, le domandai. “Fu con-dannata a morte – mi rispose – ed io stessa firmai la sua condanna!”. Poi mi raccontò che Se-rena, figlia di un fratello dell’augusto imperatore Teodosio, il primo a rivestire quel nome con la porpora, era la moglie del magister militum Stilicone e che ebbe due figlie – Maria e Ter-manzia – e che entrambe furono spose sterili del suo augusto fratellastro Onorio. “Sterili poi-ché l’imperatore Onorio era eunuco nello spirito”, mi precisò e seguitò a narrarmi che “morta la prima, ripudiata la seconda, Stilicone cadde in disgrazia, poiché proteggeva gli eretici, o almeno così diceva Innocenzo, papa della romana chiesa. Serena e Stilicone avevano anche un figliolo, Eucherio, che speravano potesse un giorno divenire mio sposo. Allora fu condannato e qui, in Ravenna, fu decapitato; poi fu decapitato anche Euterio, che era fuggito e si era na-scosto a Roma. Serena fu anche arrestata e il Senato la processò e la condannò, anche se non aveva colpa alcuna. In quel tempo, io mi trovavo a Roma, vivendo nel sacro palazzo dei Cesa-ri. Essendo Serena figlia adottiva dell’imperatore Teodosio, la sua condanna doveva essere ra-tificata da un membro della Corona, poiché così prescrivono le leggi. Allora fui chiamata in Senato e mi venne sottoposta la sentenza di condanna, affinché apponessi la mia firma e il mio sigillo. Il papa Innocenzo voleva questa condanna, ed anche la volevano gli imperatori Arcadio e Onorio. Solo io non avrei voluto, ma firmai, poiché questo mi esigeva la legge”.
Rimanemmo entrambe a lungo in silenzio: ora anche a me era venuto di piangere. “Ma tu eri l’augusta!”, esclamai dopo una pausa, “avresti dovuto negarti a firmare quella sentenza!”. “Tutti devono obbedire alle leggi, augusta Onoria, figlia mia prediletta: anche i principi sono sottoposti ad esse! Nella solidità della legge si basa la solidità dell’imperatore ”, mi rispose mestamente, e io compresi quanto avesse voluto salvare l’amata Serena e quanto si rimprove-rasse per non averlo fatto. “Io credo che fu una sentenza ingiusta” aggiunse dopo essere rima-sta pensosa “e forse fu per castigo che poco dopo giunse la notizia della morte dell’augusto Arcadio, mentre l’augusto Onorio fu sempre eunuco nell’anima. Se così è stato, ora Serena gode per l’eternità della grazia divina ed Eucherio è al suo lato”. Era tanto tempo che non par-lavo così a lungo con la mia augusta madre, che anche se la conversazione fu ricca di lacrime, tuttavia ne fui allietata.
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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #8 on: June 17, 2011, 10:16:36 am »
Ancora una cosa: come vi sembra la scelta di usare il sistema tipico del IV-VI secolo per indicare le date (indizione + fasti consolari)? Ovviamente ogni volta, in nota, colloco la data così come si scrive attualmente!

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #9 on: June 17, 2011, 10:45:49 am »
Any details on Eugenius ,J.G.Onoria.

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #10 on: June 17, 2011, 11:34:07 am »

Offline benito

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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #11 on: June 17, 2011, 12:00:21 pm »
Honoria Valentiniani imperatoris soror ab Eugenio procuratore suo stuprata concepit, palatioque expulsa Theodosio principi de Italia transmissa Attilanem contra occidentalem rempublicam concitabat.


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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #12 on: June 17, 2011, 01:07:38 pm »
Honoria Valentiniani imperatoris soror ab Eugenio procuratore suo stuprata concepit, palatioque expulsa Theodosio principi de Italia transmissa Attilanem contra occidentalem rempublicam concitabat.

OK. Il dubbio è quando avvenne lo stupro. Secondo Marcellino, fu nel 434, quando Onoria aveva appena sedici anni; secondo Prisco, invece, fu ben più tardi, verso il 449.  J.B. Bury ha dimostrato, mi pare in modo oppugnabile, che il frammento di Marcellino fu collocato per errore, nel ciclo precedente di indizioni, per cui appare attribuito al 334 anziché al 449. Che poi, non si può parlare di stupro, ma di relazione consenziente.
E' interessante il corposo studio su Galla Placidia di Lidia Storini Mazzocchi (1975, pagg. 397-403), dove conclude che forse realmente Onoria inviò l'anello ad Attila quale impegno di matrimonio, volendo emulare la madre.


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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #13 on: June 20, 2011, 06:12:35 am »
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Ho smesso di scrivere: è scesa la sera e la luce si è fatta fioca. Ricordando il giorno dell’incoronazione del fratello mio, l’augusto Valentiniano, mi viene in mente che allora pen-sai che anche per me fosse l’inizio una vita nuova, nobile e piena di eventi: che ingenua che ero! Non l’inizio, ma la conclusione di un’età, quella della mia prima infanzia, che vista con gli occhi disingannati di oggi, che attendo che si compia la mia sentenza, fu la sola età serena di tutta la mia vita. Chiamo un’ancella, che sopraggiunge subito: sempre ce n’è qualcuna a portata della mia voce. E’ una schiava germanica, dai lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle, quasi una bambina, che quando entra si inchina profondamente: non mi domanda nulla, ma at-tende che sia io a dirle cosa mi occorre. Dispongo che accenda dei lumi e lo fa solerte, senza proferire parola: ne accende alcuni, due appesi alla parete e due li appoggia sullo scrittorio, ai due lati in modo che sia agevole scrivere. Avrà una decina di anni, penso, e non è per niente sciocca, ma senza bisogno di dirglielo, con solo vedere la pergamena distesa sul piano e il ca-lamo macchiato d’inchiostro ha compreso dove dovesse collocare le lucerne. Poi, sempre in silenzio, fa un profondo inchino e resta in attesa. “Va pure”, le dico, e allora si allontana camminando a ritroso senza fare alcun rumore e nuovamente inchinandosi quando si trova sulla soglia. Non ha mai proferito parola, né osato sorridere: eppure nel suo sguardo non ho letto nessun rimprovero. Possibile che ci siano solo le schiavette a comprendere che non ho tradito Roma? Resto per un po’ immusonita nei miei pensieri, dando ordine ai ricordi che af-fiorano nella mia mente, e poi riprendo la mia scrittura.

L’augusta Placidia era molto cambiata, né poteva essere diversamente. Anche se non le mancavano i maggiordomi incaricati, volle sovrintendere in prima persona ai lavori per ripa-rare i danni al sacro palazzo, rinnovarne gl’interni, abbellirlo con mosaici che rivestivano qua-si ogni parete e ogni volta. Avviò anche una grande opera per ricostruire Ravenna e dispose che immediatamente si progettasse una grandiosa basilica per onorare l’evangelista Giovanni e adempiere così con il voto proferito quando il naufragio sembrava voler terminare con le nostre vite .
Anche gli usi cambiarono nel sacro palazzo: non più quelli vigenti al tempo dell’augusto Onorio, ma quelli propri della Corte orientale, molto più severi e improntati alla pratica della fede. Come a Costantinopoli, ora ci ritrovavamo insieme nell’oratorio tre volte il giorno; spesso facevamo penitenza e ci astenevamo dalle carni; vestivamo in modo più semplice e so-lo con quei gioielli previsti dal rituale di corte, dando sfogo allo sfarzo solamente in occasione delle udienze o dei banchetti, che si celebravano – questi ultimi – quando giungeva una visita a corte: il legato di un principe barbaro, o inviato dall’augusto Teodosio. La mia augusta ma-dre, che un tempo era così pragmatica, ora si era convertita in una persona profondamente re-ligiosa: la grandezza di Cristo era la sua priorità, diffonderne il messaggio combattendo gli eretici che lo distorcevano era il suo scopo, rafforzare l’impero era lo strumento per mezzo del quale raggiungeva lo scopo . In quello che diceva, ma anche in quello che pensava, la mia augusta madre assomigliava sempre di più alla sorella dell’imperatore Teodosio: l’augusta E-lia Pulcheria. Trascorsero così un paio di anni e giunse il giorno prima delle idi di novembre della XII indizione (429), essendo consoli Fiorentino e Dionisio, quando si celebrò il mio do-dicesimo compleanno, l’età giusta per rivolgere il mio pensiero al matrimonio .
L’augusta madre mia volle dare grande rilievo alla celebrazione del mio genetliaco, facendo coniare presso la zecca di Ravenna una moneta d’oro in mio nome con al verso la legenda BONO REIPVBLICAE : allora non compresi quale triste volontà si celasse dietro quelle due parole e provai orgoglio per questa coniazione, quando, invece, avrei dovuto esserne triste, come più consono ai fatti che poi seguirono.
Qualche giorno dopo il mio compleanno, ebbi una lunga conversazione con l’augusta ma-dre mia. Ero incuriosita – e anche un po’ perplessa – per il fatto che non mi fosse mai stato detto nulla circa quanto si stava definendo per il mio matrimonio. E’ vero che avevo appena raggiunta l’età minima per convogliare a nozze, e quindi avevo davanti a me ancora qualche anno di attesa: tuttavia era strano che ancora non fossi stata fidanzata come si conviene. L’augusta Placidia, allora, mi spiegò che non riteneva opportuno ch’io formassi una mia pro-pria famiglia, ma che sarebbe stato meglio che facessi come l’augusta Pulcheria, che aveva pronunciato un voto di castità perpetua ed era interamente dedita ad affiancare l’imperatore Teodosio, fratello suo. Dunque – mi disse – anch’io avrei fatto un voto di castità perpetua e mi sarei preparata nell’arte del buon governare come si conviene a una augusta e così affian-care nel migliore dei modi mio fratello, l’imperatore Valentiniano, affinché il suo governo ri-sultasse sempre per maggior gloria di nostro Signore. Mi venne da ridere pensando a questa sua ultima frase: proprio non ce lo vedevo quel bambinone stolto, perché questo è ciò che era l’augusto fratello mio!, ad accrescere la maestà divina grazie al suo buon governo. E glie lo dissi.
L’augusta Placidia mi rimproverò bonariamente per la mancanza di rispetto che dimostra-vo verso l’imperatore. “Anche l’augusto Onorio era così: restò sempre bambino, incapace di dare dignità al suo ruolo. Per questa ragione dovetti affiancarlo e sostenerlo, lasciando credere a lui di essere colui che governava l’impero d’Occidente, ma facendolo io in suo luogo. Una volta tu stessa dicesti che ti pareva che l’augusta Pulcheria fosse più imperatrice lai, di quanto Teodosio non fosse imperatore: ed è davvero così, ma questo non va mai detto. La discenden-za dell’augusto padre mio, il primo imperatore a portare il nome di Teodosio, sembra essere bacata dal lato maschile, ma in cambio quello femminile supplisce alle mancanze dell’altro sesso. E’ così anche per l’imperatore Valentiniano, fratello tuo, e quindi proprio tu, il giorno in cui io non sarò più in grado di farlo o avrò raggiunto la casa del Padre celeste, dovrai pren-dere il mio posto e porre te stessa al fianco di tuo fratello”. In quel momento, non mi parve un destino ingiusto: se l’augusta madre diceva che questo era bene, allora non poteva che essere bene; accettai dunque di buon grado la sua decisione, l’accompagnai nella cappella del sacro palazzo e colà feci voto di castità perpetua .
Dopo quel giorno, la mia vita cambiò in meglio.
Con il trascorrere degli anni, l’augusta Placidia mi convocava sempre più spesso quando dava udienza a personaggi che pensava meritassero il mio interesse: poi, dopo l’incontro, re-stava con noi – a volte anche con il patricius o qualche altro dignitario – a discutere quanto avvenuto, ciò che era stato detto e risposto, il perché delle parole e quanto stesse dietro alle parole dette. Al contrario di mio fratello, io prestavo molta attenzione a quanto mi diceva e non dubitavo a porre domande quando qualcosa non mi era chiaro. Mi piaceva, soprattutto, quando venivano legati dalle ambasciate presso i barbari: m’interessava conoscere i loro abiti e la loro storia, chiedevo se si sapesse da quali remote regioni provenivano e perché vivevano raminghi anziché costruire templi, palazzi e città; domandavo notizie sulla lingua da loro par-lata, ma anche quanto fossero diversi da noi e se sarebbe giunto un tempo nel quale avrebbero compreso i benefici della civica e della vera fede. Poi, su suggerimento della madre mia, ini-ziai a leggere nella biblioteca del sacro palazzo le relazioni di viaggiatori antichi, spesso scrit-te in greco, lingua che ormai mi era altrettanto famigliare di quanto lo fosse il latino.
Seppi, dunque, che gli Unni sono i più selvaggi tra i barbari che premevano alle frontiere, che con un coltello solcano profondamente le gote dei loro figli appena nati, affinché invec-chiando restino sempre imberbi come eunuchi, che hanno membra robuste e salde, il collo grosso, le gambe ritorte poiché trascorrono gran parte della loro vita a cavalli, che mangiava-no radici e carne cruda come le fiere; ma seppi anche che nelle loro assemblee tutti opinano liberamente senza che vi siano né poveri né ricchi, che sono i più coraggiosi tra tutti i popoli, che sono mutevoli di temperamento ma rispettano l’amicizia data durante tutta la vita . Ed anche seppi che oltre la terra degli Unni, vi erano esseri ancora più strani e selvaggi: giganti antropofagi con un solo occhio ed il corpo interamente ricoperto di pelo, leoni alati con il ro-stro di aquila, bipedi con la faccia in luogo del ventre, ed altre bizzarrie ancora più ripugnanti. Incontrai anche, nell’archivio di palazzo, copie delle relazioni di Olimpiodoro che per incari-co della mia augusta madre aveva visitato recentemente la corte degli Unni e si era intrattenu-to con il loro re, Ruga, e con suo nipote Attila, colui che per mia colpa avrebbe avuto tanta importanza nella mia vita futura e ne celebrava il valore .
A corte vi erano altre ragazzine della mia stessa età, che avrei potuto avere quale compa-gnia: ma mi sembravano tutte insulse, prive di interesse per quegli argomenti che a me stava-no a cuore, e probabilmente io sarò parsa ai loro occhi superba e altera, ma non sono tale: in-fatti trattavo sempre con garbo le schiave preposte alle mie cure e m’interessavo alla loro vita e, quando barbare razziate dopo la battaglia, chiedevo loro come fossero i luoghi e la gente dove vivevano e così mi resi conto che molto spesso quanto era stato scritto non rispondeva interamente a verità, ma la distorceva per fare apparire i barbari più selvaggi e i romani più civili di quanto fossero realmente. Attraverso le loro parole, conobbi l’ingiustizia del sac-cheggio e dello sterminio, la voracità dei legionari e degli esattori, la corruzione che regnava nei tribunali, la falsità e l’avidità di tanti religiosi.
Se per tutto quanto riguardava la religiosità e la vita quotidiana di corte la madre mia aveva l’augusta Pulcheria quale modello da imitare, nelle arti. Invece, aveva preso esempio dalla consorte dell’imperatore: l’augusta Eudocia. Guardando la principessa ateniese, mia madre volle che la corte ravennate ospitasse in gran numero poeti e pittori, purché la loro arte fosse sempre consona al decoro della corte  e agl’insegnamenti della madre Chiesa. Quando a Ra-venna trapelò la notizia che l’augusta Eudocia era stata allontanata dalla corte di Costantino-poli e si era trasferita a Gerusalemme con un piccolo seguito di cortigiani, ne rimasi basita e oltremodo dispiaciuta. L’augusta Placidia evitò di commentare quanto successo: in privato mi spiegò che fu la sorella dell’imperatore Teodosio, l’augusta Pulcheria, a esigere che la cognata fosse allontanata da Costantinopoli: a suo giudizio, ella era troppo incline alla filosofia e alla geometria prestando fede a queste scienze anche quando esse contraddicevano le Sacre Scrit-ture, era poco devota e mancava di umiltà, dava troppa confidenza ai cortigiani mancando di rispetto a suo marito e al proprio decoro. Mi dispiacque moltissimo, poiché tanto mi piaceva l’augusta Eudocia, quanto poco mi garbava l’augusta Pulcheria. Ciò avveniva durante la XVI indizione (431), essendo consoli Basso e Antioco, e io mi avvicinavo al mio quindicesimo an-no, mentre mio fratello era entrato nel tredicesimo.
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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #14 on: June 20, 2011, 06:33:33 am »
Avveniva, a volte, che giungessero a corte alcuni giudei o degli eretici, lamentando le sof-ferenze che causavano loro la predicazione dei monaci, i quali esaltavano la folla contro i loro beni e, talvolta, anche le loro stesse vite: templi, sinagoghe, botteghe e case private date alle fiamme; ma anche uomini, donne e persino bambini feriti, quando non addirittura uccisi. Sup-plicavano i giudei che fossero nuovamente consentite loro le professioni che avevano sempre esercitato, come la medicina e l’avvocatura, e di poter muoversi e dimorare in città con sicu-rezza. Mio fratello ascoltava – o fingeva di ascoltare – senza dar segno d’intendimento. L’augusta madre mia, invece, ribatteva loro che sì era dispiaciuta per quanto fosse avvenuto, che era contrario alla legge, ma che in gran parte loro stessi ne erano causa, oltre che vittima, per ostinarsi perfidamente a negare la vera fede in Cristo, né mai diede loro giustizia. A me pareva troppo severe, l’augusta Placidia, e in un’occasione glie lo dissi: “non mi cacceranno nuovamente via dalla corte accusandomi di essere troppo tenera con gli eretici e con chi nega Cristo!”, mi rispose irata; poi, con più calma, mi spiegò che quella fu la ragione per cui i ne-mici fecero sì che l’augusto Onorio, fratellastro suo, le diventasse nemico “sì che dovemmo riparare alla corte orientale, come ben ricordi”.
Non potei ribattere nulla alle sue parole, ma meditai sull’argomento e cominciai a leggermi le novellae  degli illustri imperatori del presente e del passato e che, come sapevo, mio cugi-no, l’augusto Teodosio, stava collazionando in un testo unico e organico, ove non vi fossero contraddizioni e in guisa tale che i giudici potessero ben vedere quando su un quesito vi fosse volontà e decisione unanime degli imperatori che su di esso avevano deliberato . Lessi anche quanto decretato dall’augusto padre mio Costanzo, e vidi che spesso egli volle essere tolleran-te verso chi non seguiva rigorosamente quanto prescritto dal pontefice romano e aveva impo-sto che venisse rispettato nella sua persona ed anche nei suoi beni. Mia madre non mi raccon-tò mai nulla sull’augusto Costanzo, con il quale la maritarono contro il suo desiderio: ora at-traverso la lettura delle leggi che egli aveva promulgato, venivo a scoprire un aspetto impor-tante del suo essere, e mi piacque. Lessi anche le leggi promulgate dal tiranno Giovanni, sco-prendo che aveva stabilito che chiunque aveva diritto di credere nei propri dei e che nessuno poteva imporre la sua fede ad altra persona, ed anche che aveva mandato a ripristinare, ove ri-chiesto, il culto degli antichi dei, pur ritenendo che solo la fede in Gesù fosse quella veritiera: ed anche questo mi piacque. In quel modo giunsi a comprendere che vi fossero persone tolle-ranti nelle idee, ad altre intolleranti, e che il augusto padre faceva parte delle prime, mentre l’augusta Placidia capitanava la schiera delle seconde, insieme alla cugina mia l’augusta Pul-cheria: e questo non mi piacque; e m’avvidi che tutte quelle leggi basate sulla tolleranza furo-no abrogate con parole di fuoco e di disprezzo da mia madre, e ciò avvenne appena giungem-mo ad Aquileia, prima ancora di entrare in Ravenna e che il fratello mio fosse incoronato: e neppure questo mi piacque. Fu quella la prima volta che mi accorsi di allontanarmi da mia madre, nonostante l’enorme amore che provavo per lei (e lei per me, ne ero sicura!), ma non potevo condividere questa sua rigidità.   
Se inizialmente quando ero coinvolta nelle udienze di corte ero incuriosita soprattutto dai racconti dei viaggiatori che venivano dal limes dell’impero, ora a poco a poco mi sentivo sempre più coinvolta da mia madre nelle vicende politiche che travagliavano Roma: la pres-sione dei barbari sulle frontiere; le battaglie per sopprimere le eresie che si combattevano nei Concili, ma non solo; il dominio che esercitavano i patricii e i magistri militum sulla corte imperiale e che li convertiva nei veri vertici dello Stato; le rivalità tra costoro e le lotte fratri-cide che a volte ne derivavano.
Il generale Flavio Costanzo Felice era il marito di Pandusia, sempre fedele amica e sosteni-trice della madre mia, la quale durante la XIII indizione, essendo consoli gli augusti Teodosio e Valentiniano (430), gli confidò il comando di tutte le forze dell’impero occidentale  sapen-do di poter contare cecamente su di lui: infatti già l’anno precedente lo aveva nominato patri-cius, mentre due anni prima lo aveva fatto console. Non solamente poteva contare sulla sua devozione: i suoi consigli – diceva mi madre – erano sempre molto saggi e meditati, per cui veniva convocato a corte quasi ogni volta che c’era una decisione da assumere. Lo ricordo come un uomo maturo, dal volte dolce e pacato, con una lunga barba, di buon carattere.
A Flavio Aezio era stato conferito il titolo di magister militum per Gallias. Mia madre lo detestava e non poteva dimenticare che fu il principale sostenitore del tiranno Giovanni: ma era troppo potente in quanto era un uomo ricchissimo, ma soprattutto poteva contare sulla fe-deltà di una parte dell’esercito unno e sulla altalenante amicizia di Ruga e dei suoi nipoti, Bleda e Attila. Egli si presentava quale unico generale in grado di mantenere in pace gli Unni e di ricacciarli nella Pannonia, che era stata loro destinata, ogni qual volta sconfinavano: ma mia madre aveva il sospetto che spesso fosse proprio lui a incitarli contro l’impero, per poi vincerli in battaglie mai definitive, e così presentandosi quale salvatore di Roma. Avendogli dato il comando delle operazioni militari nella Gallia, occupata in gran parte dai Visigoti, l’augusta madre mia Placidia sperava di tenerlo il più possibile lontano da Ravenna, ma con scarso risultato, in quanto si tratteneva assai più in Italia che in Gallia, sempre pronto a com-plottare.
Il generale Bonifacio, che ci aveva tanto aiutati quando durante gli ultimi mesi di vita dell’augusto Onorio dovemmo fuggire dall’Italia e riparare alla corte di Costantinopoli, aveva il comando dell’Africa, la più ricca tra le provincie dell’impero e la cui produzione di grana-glie e olio alimentava Roma stessa.
Sin da quando mio fratello assunse la porpora, il generale Aezio cominciò a tramare calun-nie nei confronti di Bonifacio, mormorando che era intenzionato a mettersi d’accordo con i Vandali e con il loro appoggio creare in Africa un regno indipendente del quale esserne inco-ronato. La madre mia non credette a queste calunnie e invitò Bonifacio affinché si recasse a Ravenna per confutarle. Tuttavia Aezio fu astuto e falso come il serpente della maledizione divina: scrisse a Bonifacio professandogli la sua amicizia, mettendolo in guardia a non recarsi a Ravenna in quanto era diventato inciso alla Corte ed era stato sentenziato a morte. Bonifacio non poteva comprendere, ovviamente, per quale ragione la madre mia potesse essergli divenu-ta nemica, ma credendo alle parole di Aezio, non obbedì al comando ricevuto e restò a Carta-gine. Tale disobbedienza, tuttavia, creò sospetti sul suo comportamento, che proprio questo era lo scopo di Aezio. Mia madre decise allora di inviare in Africa un corpo militare per arre-stare Bonifacio e condurlo a Ravenna: questo, tuttavia, quando giunse a Cartagine passò a fa-vore di Bonifacio, per cui l’anno successivo ne venne inviato un secondo assai più poderoso. Questo avvenne durante la XI indizione, essendo consoli Felice e Tauro (428).
In questo frangente, Bonifacio si credette perduto e allora chiese a Genserico, re dei Van-dali, di aiutarlo: quest’ultimo, che si trovava in Spagna combattendo contro i Visigoti ed era alla ricerca di una provincia dove stabilire le sue tribù, accettò e, con lo stesso aiuto romano entrò, attraversò il Mediterraneo e occupò la Numidia con la sua gente, non come nemico, ma come federato e amico di Roma. Finalmente la madre mia riuscì a comunicare direttamente con il generale Bonifacio, parendole incredibile che costui la stesse tradendo: in questo modo venne alla luce l’intrigo indegno di Aezio e lo stesso Bonifacio, ora che le cose erano state chiarite, abbandonò Cartagine e si recò in Italia per punire il tradimento di Aezio, forte del rinnovato appoggio dell’augusta Placidia. I due si scontrarono presso Rimini, e le truppe di Aezio furono sconfitte ed Aezio stesso riparò in Pannonia, presso gli Unni, a chiedere il loro appoggio per pareggiare la partita: tuttavia un sicario prezzolato, attentò a tradimento alla vita di Bonifacio, ferendolo gravemente e a conseguenza di queste ferite poco dopo morì. Ciò av-veniva durante la XV indizione, essendo consoli Valerio ed Aezio (432), che coincise con i festeggiamenti per i tricennallia dell’augusto cugino Teodosio. In questo modo, Aezio pur sconfitto restò padrone incontrastato del campo. Tornò in Italia accompagnato da un forte contingente unno e la madre mia dovette far buon viso a cattivo gioco e cedere alle sue condi-zioni che di fatto ne fecero l’arbitro unico del potere; poi, affinché il suo potere fosse incon-trastato, ma anche per vendicarsi nei confronti della madre mia che aveva apertamente appog-giato Bonifacio, contrattò dei sicari che uccisero a tradimento l’amico Flavio Felice e la mo-glie Padusia.
Da questo conflitto l’impero ne uscì sconvolto e profondamente indebolito: Genserico, re dei Vandali, restò padroni di gran parte dell’Africa, mentre agli Unni venne formalmente ri-conosciuto il possesso della Pannonia.
Nel sacro palazzo i restauri dei danni subiti erano ormai stati riparati, ma gli abbellimenti sembravano non avere mai fine. Mosaicisti, poeti e storici erano sempre graditi ospiti a corte, purché la loro arte fosse sempre consona al decoro e per gloria della vera fede. Proprio duran-te il tempo in cui avvenivano questi scontro fratricidi, soggiornava a corte un pittore di nome Bunneri Kerami, che la madre mia teneva in grande considerazione: ci era stato raccomandato dall’augusto cugino Teodosio, in quanto aveva dato mostra di grande abilità alla corte orienta-le, e la fama che lo aveva preceduto era ben motivata. Realizzava i cartoni per i mosaici, tanto per il sacro palazzo, quanto per le chiese della città; ma spesso veniva richiesta la sua mano per eseguire ritratti e miniature ed eternare così le sembianze dei suoi mecenati.
Allora io era una ragazzetta forse di una quindicina di anni, non ricordo bene, quando su richiesta della madre mia eseguì un piccolo ritratto con i nostri busti – l’augusta Placidia al centro, mio fratello a sinistra e io alla destra – su un tondo di vetro: una miniatura da incasto-nare come fosse un medaglione. Per l’occasione, la madre mia volle che intorno al mio collo ci fosse un giro di perle in luogo della sottile catenina d’oro con la croce di Cristo, anche se non voleva mai che indossassimo gioielli fuori delle occasioni speciali, come i ricevimenti uf-ficiali della corte; lei, invece, neppure in quell’occasione accettò di collocarsi qualunque or-namento: riteneva che non fossero consoni a chi aveva assunto quale priorità per la sua vita, dedicarsi a ingrandire la gloria e la potenza della vera Chiesa. Realizzò anche un piccolo ri-tratto al mio augusto fratello, che fu inviato alla corte di Costantinopoli, così come da oro ri-cevemmo una miniatura nella quale era ritratta Licinia Eudossia, figlia dell’augusto cugino imperatore e della bellissima sua consorte Elia Eudocia, sposa promessa per l’imperatore Va-lentiniano, il mio viziato fratello. Mi fece piacere rivedere il volto di Eudossia, bellissimo quanto quello della madre sua!
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Re: Il mio nome è Justa Grata Honoria
« Reply #15 on: June 25, 2011, 01:16:47 am »
Proprio non avete nessun suggerimento da darmi?  :azn:


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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #16 on: July 05, 2011, 09:46:12 am »
Ma era proprio così terribile Attila, da essere inimmaginabile che davvero Onoria potesse chiedere proprio a lui di venire a liberarla?
Cosa ne sapeva Onoria di Attila?
In quegli anni, spesso eruditi (come Olimpiodoro) o ambasciatori che erano anche attenti osservatori (come Prisco) si recano in Pannonia presso Attila e, al loro ritorno, ne tracciano il profilo. Queste relazioni, sicuramente giungevano in copia a Ravenna (Olimpiodoro in originale, poiché andò per conto della corte ravennate). Ma anche Aezio doveva parlarne relativamente bene, sottolineando quanto fossero potenti e pericolosi (ma per fortuna c'era lui a tenerli a bada!), ma anche che erano di parola.

Così ragiona Onoria nel mio racconto (siamo nel 448, poco prima della famosa lettera):

"Prisco di Panion stette presso di loro quale legato della Corte di Costantinopoli e al suo ri-torno raccontò di aver pranzato abbondanti pietanze servite su piatti d'argento, sebbene Attila mangiasse soltanto della carne da un tagliere di legno e dimostrasse in tutto una grande modestia, bevendo da una coppa di legno, mentre agli ospiti furono dati calici d'oro e argento. E aggiungeva ancora che, a differenza di un tempo, ora gli Unni usavano abiti molto semplici ma puliti, con la spada al fianco, anche se le borchie delle calzature e la bardatura del cavallo non erano adorne con guarnizioni d'oro, pietre preziose o di altro materiale pregiato, come quelle degli altri Sciti. Raccontava pure di Cerea, moglie di Attila e amministratrice del suo palazzo e di come lo avesse invitato alla sua tavola, facendosi incontro a lui tutta gaia e generosa, accompagnata da un gran stuolo di principi  sciti; di come fosse magnifico il convito per l’apparato delle vivande e accompagnato dagli scherzi e risa di quella principessa. Attila stesso, diceva ancora il legato Prisco, era basso di statura, con un largo torace e una testa grande; i suoi occhi erano piccoli, la sua barba sottile e brizzolata e aveva un naso piatto e una carnagione scura, che metteva in evidenza la sua origine: vestiva in modo modesto, con una veste priva di ricami che in nulla si distingueva da quella degli altri dignitari della sua corte . In somma, più ascoltavano le notizie che portavano i legati, ma anche i commercianti e i preti che visitavano la Pannonia e la corte del re unno, e più ci rendevano conto che sarebbe stata cosa molto saggia trattare direttamente con Attila senza più subire il ricatto del generale Aezio, se solamente fosse stato possibile contattarlo a insaputa di questo, ma anche del mio augusto fratello."

Tranne l'ultima riga e mezza, nulla di quanto scrivo è frutto della mia penna (tastiera), am è la traduzione alla lettera di quanto davvero scrive Prisco, così come lo leggo (in latino) nell'edizione in mio possesso: Prisco, De legationibus Romanorum ad gentes, Bonn 1829.

E' davvero così incredibile il gesto di Onoria?

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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #17 on: July 06, 2011, 11:11:43 am »
A proposito di Prisco, egli è e resta la fonte più certa di tutti questi avvenimenti in quanto: contemporaneo agli stessi, protagonista in prima persona nella sua qualità di componente delle ambasceria inviate presso la corte di Attila, molto equilibrato e preciso nelle sue descrizioni e poco propenso ai voli pindarici.
Dunque mi sembra utile postare integralmente il testo di Prisco, nella sua versione latina:

“7. Cum primum Attilae nuntiatum est, Martianum post Theodosii mortem ad imperium pervenisse, et quae Honoriae accidissent, ad eum, qui in Occidentem rerum potiebatur, misit, qui contenderent, Honoriam nihil se indignum admisisse, quam matrimonio suo destinasset; seque illi auxilium laturum, nisi summa quoque imperiii ei deferretur. Misit et ad Romanos Orientales tributorum constitutorum gratia. Sed re infecta legati utrimque sunt reverse. Etenim qui Occidentis Imperio praeerat, respondit, Honoriam illi nubere non posse, quod iam alii nupsisset. Neque imperium Honoriae deberi. Virorum enim, non mulierum, Romanum imperium esse. Qui in Oriente imperabat, se minime ratam habere tribute illationem, quam Theodosius consensisset: quiescenti munera largiturum; bellum minanti viros et arma obiecturum ipsius opibus non inferiora. Itaque Attilas in varias distrahebatur sententias, et illi in dubio haerebat animus, quos primum aggredetur. Tandem melius visum est ad periculosius bellum prius sese convertere, et in Occidentem exercitum educere. Illic enim sibi rem fore non solum cum Italis, sed etiam cum Gothis et Francis: cum Italis, ut Honoriam cum ingentibus divitiis secum abduceret; cun Gothi, ut Genserichi gratiam promereretur.

8. […] Quamobrem Attilas antequam in eam expeditionem ingrederetur, rursus legatos in Italiam misit, qui Honoriam poscerent: eam enim secum matromonium pepigisse: cuius rei ut fidem faceret, annulum ab ea ad se missum por legatos, quibus tradiderat, exhiberi mandaverit. Etiam dimidiam imperii partem sibi Valentinianum debere, quum ad Honoriam iure paternum rum pertineret, quo iniusta fratris cupiditate privata esset. Sed quum Romani Occidentales in prima sententia persisterent et Attilae mandata reicerent, ipse toto exercitu convocato maiore vi bellum paravit”.


Prisco di Panion, Excerpta de legationibus Gentium ad Romanos, da:
Immanuel Bekker e Barthold Georg Niebuhr, Dexippu, Eunapii, Petri Patricii, Prisci, Malchi, Menandri Historiarumquae supersunt, Bonn 1829, pagg. 151-153.

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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #18 on: July 07, 2011, 03:38:10 am »
Ho riscritto quasi tutti i post di questa discussione (tranne gli ultimi) per proporvi in modo integrale i primi 5 capitoli della mia biografia di Justa Grata Honoria.
Immagine che Onoria scrive in prima persona dopo il 452, quando ormai Teodosio II, Galla Placidia e Attila sono morti: ella si trova a Roma, reclusa in un convento, temendo per la sua vita ora che sua madre è morta.
Molte scelte sono discutibilissime.

Tanto per cominciare il fatto di essere una biografia romanzata, il che fa storcere di molto il naso a Pippo... Per istinto, anche a me la storia romanzata non mi entusiasma, e neppure mi entusiasmano i romanzi di Giulio Castelli, che pure si documenta bene. Perché allora ho scelto questo modello di narrazione? Perché mi annoiavo a scrivere un saggio di storia e, dopo 5 o 6 anni, mi è venuta voglia di tornare alla narrativa.

Ma a voi, e in modo particolare a Pippo che non ama questa scelta, domando: al di là dello stile romanzato, ritenete che sono rigoroso nei fatti storici? Tenete presente che in questi miei post non ho inserito le note, che praticamente accompagnano quasi ogni paragrafo, ed il cui volume non è inferiore a quello del tetso medesimo.

Ritenete credibile la psicologia dei personaggi? Storicamente corretta la posizione di Teodosio II?

L'uso del calendario romano vigente nel tardo impero, con il sistema dei cicli quindicinnali di indizioni e fasti consolari, è fastidioso? Appesantisce il testo?

Il linguaggio piuttosto aulico (come si conviene a un'augusta, ma anche tenendo in conto che lo stile degli autori del V secolo è molto ampolloso: Sidonio Apollinare ne è un esempio!) e troppo pesante? risulta sgradevole?

Spero di aver stimolato almeno un poco la discussione, che sino al momento ha trovato Benito quale unico interlocutore...


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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #19 on: July 07, 2011, 04:24:11 am »
I have found this thread particularly interesting,and I wait impatiently for your memories J.G.Honoria.
For those whose primary interest is coins rather than history see below two of your coins.
It seems your coglione brother Valentinianus did not appreciate you too much.

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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #20 on: July 07, 2011, 05:02:43 am »
Thanks, Benito.
Yes, it is: coglione brother Valentinianus dids not appreciate my note too much.

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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #21 on: July 08, 2011, 07:17:58 am »
I have found this thread particularly interesting,and I wait impatiently for your memories J.G.Honoria.
For those whose primary interest is coins rather than history see below two of your coins.
It seems your coglione brother Valentinianus did not appreciate you too much.

Are your the two beautiful gold coins posted?

I take this opportunity to get on with my tale of honor, even if I have a doubt: do you understand Italian?

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"VI

E’ curioso: quando vivevo nel sacro palazzo, alzarmi tutte le mattine all’alba per partecipa-re alla prima preghiera della giornata mi pesava. Fino a quando ci fu anche la mia augusta madre, vederla, salutarla, scambiare con lei qualche parola, mi compensava ampiamente; ma senza di lei quell’orazione mattutina mi pesava. Ora, invece, mi rasserena. Sono sempre stata molto mattiniera, svegliarmi al primo suono della campana non mi costa fatica; anche se le ancelle preparano acqua tiepida per il mio bagno, ora che è primavera preferisci lavarmi con acqua fredda: mi stimola come un tonico. Poi c’è una colazione nel refettorio del monastero, dove vige il silenzio, interrotto solamente dalla preghiera del cappellano: un silenzio che mi è gradito poiché occulta l’altro silenzio, quello del vuoto che le monache fanno intorno a me, che altrimenti sarebbe evidente. Finalmente mi ritiro nella mia cella – il mio ultimo nido – per continuare questa mia nota. Stamane, inattesa, la piccola schiava bussò alla porta; la invitai a entrare, s’inchinò rispettosa al mio cospetto e mi porse un rotolino che teneva nascosto in se-no: era un frammento arrotolato di pergamena delle dimensioni di un dito. Lo svolsi e lessi il messaggio: era dell’augusta Licinia Eudossia, sposa dell’imperatore fratello mio, che amavo come una sorella; s’informava della mia salute e mi comunicava che quella giovane schiava era stata da lei donata al monastero proprio per poter così creare tra noi un contatto di fiducia, una messaggera nel momento in cui fosse necessario; mi celebrava la fedeltà dell’ancella, la sua devozione e la perspicacia del suo ingegno; mi raccomandava di distruggere il messaggio, oppure, se non avessi come distruggerlo, di restituirlo alla giovanetta. Aggiunsi sul rovescio della piccola pergamena due righe per ringraziare la mia augusta cognata e resi il messaggio alla schiava, carezzandole una guancia. Il suo volto non tradì espressione, ma nei suoi occhi scorsi simpatia per la mia persona e gratitudine per quella leggera carezza. Pensai che forse era gota, un pensiero che mi fece tornare alla gioventù della madre mia, quando fu regina dei Visigoti. Quando infine se ne andò, acconciai bene la punta del mio calamo e ripresi a scrive-re la mia nota.

L’augusta Placidia era tanto severa ed esigente nei miei confronti, quanto invece era flessi-bile e tollerante con le stravaganze del fratello mio. L’imperatore Valentiniano sin da quando entrò nel suo dodicesimo anno di vita, anziché crescere in giudizio e interessarsi a quanto consono all’arte del governo, cresceva in vacuità e dedicava la sua attenzione solamente agli esercizi di lotta e di guerra, impegnandosi nel gioco dei dadi, nelle scommesse sulla vittoria degli aurighi e pure, ormai, anche nell’abusare delle schiave poste al suo servizio . La madre mia vedeva, ma taceva: forse consona del fatto che, pur crescendo, il figlio suo non sminuiva in nessuna misura il suo ruolo di reggente. Quando una volta le feci osservare che così com-portandosi il fratello mio rischiava di dannare la sua anima, ella mi rispose che se un principe agiva nella difesa delle vera fede e con le sue azione e le sue leggi accresceva la potenza e la ricchezza della sua Chiesa, allora i suoi peccati gli venivano rimessi, poiché era maggiore il vantaggio che la religione otteneva dalle sue azioni, piuttosto che il danno provocato dalle stesse. Una risposta che non mi piacque e che mi parve molto ingiusta, ma non dissi nulla e tenni per me questi miei sentimenti.
Cominciai a leggere avidamente le opere dei filosofi, ma ora con occhi ben diversi, non più cercando nei loro scritti l’errore, ma individuando la verità che in essi si manifestava. Ora, dunque, non guardai più come a vaneggiamento di colui che era lontano dalla verità, la parola di chi, come Cicerone, credeva che la Terra fosse un globo sospeso al centro dell’universo, e non una superficie piana come dice il vescovo e rilessi con nuovo intendimento quel passo della Natura degli Dei ove dice: “Si consideri innanzitutto la terra nel suo complesso, situata al centro dell'universo, solida e rotonda, ricoperta di fiori, di erba, di alberi, di raccolti: l'in-credibile moltitudine di tutti questi si distingue per l'infinita varietà di colori” . Ma allora stava nel vero Tolomeo quando disegnava la Terra a guisa di sfera! Poi incontrai che neppure il grande padre della Chiesa, Agostino di Ippona, che il vescovo nostro dice che è un grande Santo, escludeva che la terra fosse un globo al centro dell’universo, anche se affermava che la parte sottostante del globo non poteva essere abitata da uomini . Ma se è così, mi dicevo, an-che i padri della Chiesa si contraddicono tra loro e dunque non possiedono la verità, ma una verità tra le tante possibili.
Lessi anche la copia di una relazione che parlava dei disordini che monaci, giudei ed eretici provocarono nella colta Alessandria e che culminarono durante la XIII indizione (415), essen-do consoli gli augusti Onorio e Teodosio, con la crudele uccisione di Ipazia, filosofa e astro-noma, della quale trovai in altra sede illustrate le sue idee e come ella comprese che la stagio-ne fredda si alternava a quella calda poiché il sole girava intorno alla Terra lungo un percorso ellittico, sì che ora era più prossimo ed ora più lontano; e la crudeltà del suo martirio mi fece dubitare che fossimo migliori di coloro che denunciavamo quali barbari selvaggi. Di tutto ciò, ne parlai con il mio precettore di filosofia, il quale mi comandò di usare molta prudenza e di astenermi dal commentare con chicchessia quanto stavo ragionando, poiché avrei potuto gua-dagnarmi fama di eretica. Tuttavia non mi allontanò da questi interessi, ma mi suggerì altre letture – filosofi greci e padri della Chiesa – e più andavo avanti nelle mie letture e più mi al-lontanavo da tutto quanto avevo sino ad allora creduto.
Ora che erano morti tanto Bonifacio quanto Felice, il generale Aezio aveva un potere in-contrastato. Tuttavia un altro potere stava sorgendo all’orizzonte, pari se non superiore a quel-lo suo: la forza dilagante degli Unni, ora governati dai fratelli Bleda e Attila, subentrati all’anziano re Ruga. Era dunque naturale ch’io fossi sempre molto attenta e interessata – e non solo io, che lo era altrettanto anche l’augusta Placidia – ogni qual volta m’imbattevo in qualche relazione di storici, sapienti o legati che parlassero di questo popolo, oppure giunge-vano visitatori dalla Pannonia o che avevano soggiornato in questa terra.
Gli ambasciatori che sovente erano inviati presso i fratelli Bleda e Attila, al loro ritorno raccontavano quanto stessero mutando i costumi degli Unni, grazie alla saggezza del cugino mio, l’augusto Teodosio: ora vedevamo bene quanto egli fosse nel vero quando stimava che convenisse dar loro un contributo purché soggiornassero in pace e rinunciassero alle loro abi-tudini nomadi, piuttosto che guerreggiarli. Ora, infatti – così raccontavano i viaggiatori di ri-torno dalla Pannonia – stavano abituandosi a costruire dimore stabili, anche se prediligevano la flessibilità del legno, alla stabilità della muratura: la magione del loro condottieri non era più una tenda, ma era costituita da numerosi e bei padiglioni e, tra i due fratelli, Attila si di-stingueva poiché aveva facile eloquenza e nobile portamento, nonostante la bruttezza dei suoi tratti. Altre volte, invece, venivano narrate nefandezze tali, che gli Unni parevano fiere più che animali, selvaggi oltre ogni dire, solamente tenuti a bada dal patricius Aezio: ma sapeva-mo bene quanto infido fosse questo generale, che da giovane visse in amicizia con questa gen-te e insieme a loro crebbe e che anche qualora n’avesse la possibilità, non li avrebbe mai in-deboliti oltre misura, essendo la forza degli Unni, la sua propria forza, e la minaccia da loro rappresentata, la sua certezza di potere .
Ormai non ero più una bambina, ma una donna: era l’estate della V indizione, essendo consoli Aezio e Sigisboldo (437), quando il mio augusto fratello inviò il prefetto Volusiano alla corte di Costantinopoli per concordare la celebrazione delle nozze con la giovane Licinia Eudossia.
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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #22 on: July 08, 2011, 07:23:31 am »
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“Preghiamo per tutte le vittime di Aquileia”, disse stamane l’abbadessa prima che iniziasse la prima orazione della giornata, “e affinché il nostro Padre celeste non castighi mai più i nostri peccati inviando un nuovo flagello, come l’Unno che sterminò così crudelmente uomini, donne e bambini. Oremus”. “Oremus”, rispondemmo tutte, con il volto rivolto a terra. Anche se nessuna delle monache mi guardava, eppure lo sguardo di tutte era rivolto verso di me, accusatorio e carico di disprezzo. Conoscevo l’abbadessa già da prima di essere rinchiusa in questo convento e sapevo che era di Aquileia e che, secondo quanto dicono, tutta la sua fami-glia fu crudelmente uccisa, così come gran parte della popolazione della città, ora ridotta in macerie: si salvarono solamente coloro che cercarono rifugio nelle numerose isolette della laguna, confidando nell’incapacità degli Unni di seguirli in mare.
Finalmente potei tornare nella celletta ove, innocente, pago le colpe di altri. Ritorno, dun-que, alla stesura di questa mia nota, con la speranza che non sia un’opera inutile e che non va-da distrutta, ma letta da persone di buona volontà, che non siano accecate dai pregiudizi e sappiano (e vogliano) comprendermi.

Mio fratello ed io non andammo mai d’accordo. Io lo tenevo per uno sciocco – lo era dav-vero! – e mi pareva ingiusto che fosse lui ad avere il titolo imperiale, quando era l’augusta madre mia colei che governava davvero l’impero. Ma credo che anche il mio augusto cugino, l’imperatore Teodosio, lo considerasse un vanesio inutile; egli si manteneva sempre molto bene informato di quanto avveniva alla Corte ravennate e certamente i tanti viaggiatori che da Costantinopoli giungevano sino alla nostra città, poi al ritorno informavano minuziosamente l’imperatore su quanto avevano visto e udito; egli, comunque, aveva molta fiducia nella capa-cità della madre mia di mantenere nelle sue mani il governo dell’impero, anche ora che l’augusto Valentiniano – indegno di fregiarsi di questo titolo e ancor più indegno di vestire la porpora! – aveva raggiunto la maggior età. Credo che l’imperatore Teodosio contasse molto sul fatto che la bella Eudossia partorisse prontamente un erede degno di subentrare al trono di Roma e che l’augusta Placidia riuscisse a dominare l’inetto figlio suo, sino a quando i tempi fossero maturi per il trapasso della corona al nipote.
L’imperatore Teodosio rispose all’ambasciata di Volusiano proponendo al cugino di cele-brare le nozze a Tessalonica, anziché nella capitale, poiché ormai si avvicinava la brutta stagione e così si sarebbero incontrati a metà strada. L’augusto fratello mio temette (credo che a ragione!) che dietro quel suggerimento ci fosse la volontà della Corte di Costantinopoli di togliere importanza a questo matrimonio, deciso tre lustri prima; proprio per questa ragione, insistette affinché le nozze si celebrassero nella grande capitale d’Oriente, dove giunse accompagnato da un piccolo seguito di dignitari. Otto giorni più tardi, il IV giorno prima delle calende di novembre della V indizione, essendo consoli Aezio e Sigisboldo (29 ottobre 437), venne celebrato il matrimonio tra l’augusto Valentiniano e la giovane Licinia Eudossia. Erano presenti l’imperatore Teodosio con la sua augusta sorella, la vergine Pulcheria, e la sua augusta sposa, la filosofa Elia Eudocia, che tuttavia era ormai caduta in disgrazia . Durante la cerimonia, l’augusto Teodosio lesse la novella della madre mia nella quale si confermava che il governo dell’Illirico sarebbe stato perpetuamente di competenza della Corte orientale, poiché ciò era vantaggioso per ambedue le parti dell’impero; aggiunse l’imperatore Teodosio che “la felicità dell’Occidente poteva essere assicurata solamente dalla solidità dell’Oriente”. Credo che questa affermazione, un po’ sibillina, nasceva dalla scarsa fiducia del mio augusto cugino nella capacità del fratello mio, nonché nell’ambiguità del patricius Aezio, il cui potere superava di gran lunga quello dell’inetto imperatore di Roma. Come era consuetudine, la festa nu-ziale fu resa di conoscenza pubblica in tutto l’impero riportando l’evento sul rovescio della principale moneta aurea. Tuttavia – e ciò era strano ma non privo di ragione – l’imperatore Teodosio non fece coniare nessuna moneta in nome del fratello mio, ma solamente in quello suo proprio.
Poiché ormai la stagione era brutta e la navigazione pericolosa, gli sposi decisero di pren-dere dimora nel palazzo imperiale di Tessalonica, fatto costruire dall’augusto Galerio un secolo prima accanto al circo e dotato di ogni comodità: lì l’avo mio, l’augusto Teodosio, il primo imperatore a fregiarsi di questo nome, ricevette l’ava Galla, madre della madre mia e sorella dell’augusto Valentiniano, il secondo imperatore a fregiarsi di questo nome; lì si conobbero e si amarono e celebrarono le loro nozze. Per questo il fatto che il vanesio fratello mio, indegnamente fatto imperatore, percorresse quei solenni saloni m’irritava e mi pareva una profanazione, anche se intendevo che non poteva essere diversamente. Fu dunque solamente con il sopraggiungere della primavera dell’anno seguente, quello della VI indizione, essendo consoli l’augusto Teodosio e Fausto (438), che la coppia imperiale giunse a Ravenna, accolta da grandi festeggiamenti.  Mio fratello Valentiniano volle che la sua consorte fosse subito celebrata con una degna moneta, analoga a quella che la madre mia, l’augusta Placidia, fece fare quale medaglione quando rientrammo a Ravenna subito dopo che l’imperatore Valentiniano indossò la porpora e, anticipandosi al suo stesso cugino, volle che rivestisse il titolo di augusta poco dopo il loro rientro a corte: e così si fece e non mi pare che l’imperatore Teodosio se n’avesse a male.
L’augusto fratello mio, ora sembrava molto cambiato: ugualmente vanesio, ma quanto più arrogante! Esordì con non volere più la mia presenza durante le imperiali udienze, sostituendomi con l’augusta Licinia Eudossia: ciò che poteva essere anche giusto e non mi spiacque più di tanto, potendo sempre accedere alla documentazione conservata in archivio. Progressivamente, tuttavia, anche il consiglio della mia augusta madre venne sostituito da quello dell’infido patricius, Aezio, il quale non faceva che mormorare a corte e in ogni occasione, contro l’augusta Placidia e il fatto che, come pattuito quindi anni innanzi, avesse confermato alla pars Orientalis il possesso dell’Illirico: spalleggiato dall’imperatore Valentiniano, ormai Aezio non aveva più timore di mancare di rispetto e di offendere mia madre. Lei ne rimase as-sai delusa. “Si è appena unito a Licinia Eudossia e vuole impressionare positivamente l’augusta consorte”, mi diceva: ma so che neppure lei credeva alle sue parole. Semplicemente, era lui l’imperatore – come ad ogni momento gli diceva Aezio sobillandolo contro la sua stessa madre – e doveva essere tale, senza farsi condizionare dal pensiero di sua madre, né di nes-sun altro. E fu così che rifiutò il consiglio di tutti noi, famiglia sua, per ascoltare solamente quello dell’infido generale: infatti nel trascorrere degli anni successivi anche la sua bella e colta moglie, assai saggia e intelligente come potemmo subito arguire, venne messa progressivamente in disparte – dapprima come consigliera, poi come donna – sì che l’augusta Licinia Eudossia soffriva con regale silenzio.
Trascorse poco più di un anno prima che mia cognata partorisse una prima volta: ebbe una bambina che volle chiamare Eudocia, come la madre sua. Era la primavera della VII indizione, essendo consoli Teodosio e Festo (439). Fu un parto difficile e dovette attendere un paio di anni prima di poter nuovamente essere madre: lo fu nell’autunno della IX indizione, essen-do console il solo Ciro (441), e la sua stessa vita rischiò di giungere al suo epilogo. Nuovamente fu una bambina che venne chiamata Placidia, come la mia augusta madre, forse perché ormai era solamente in noi due che mia cognata poteva trovare affetto, comprensione e stima. Non avrebbe più potuto avere altri bambini, dissero i medici, e fu effettivamente così. Ne rimase molto deluso il cugino mio, l’imperatore Teodosio, poiché la bella Atenaide aveva abbandonato definitivamente Costantinopoli senza dargli un erede; ora neppure l’augusto Valentiniano aveva un erede e, dunque, il casato teodosiano poteva estinguersi dando nuovamente inizio a lotte eterne e implacabili per indossare la porpora. Mentre mio fratello mostrò indiffe-renza, impegnato com’era solamente in passioni indecorose, il patricius Aezio, l’infame!, mostrò di esserne soddisfatto.
Questi primi anni del regno di mio fratello, ora che rifiutava la reggenza e il consiglio dell’augusta Placidia, furono disastrosi, anche se della disgrazia peggiore ne furono artefici le infelici lotte tra i magistri militum Aezio e Bonifacio, ma anche le calunnie del vescovo di Roma alle quali, purtroppo, la madre mia diede troppo ascolto. Il X giorno prima delle calende di ottobre della VII indizione, essendo consoli Teodosio e Festo (22 settembre 439 ), Cartagine cadde nelle mani del re vandalo Genserico, e con la città quasi tutta la provincia dell’Africa, granaio dell’impero. Fu assai peggio – disse la madre mia – del saccheggio di Roma da parte di Alarico, poiché questo, per terribile che fosse stato, era un qualcosa di momentaneo, mentre la perdita dell’Africa era destinata a durare, poiché il mio augusto fratello Valentiniano e il suo patricius Aezio sembravano non comprenderne appieno l’enormità. Roma, ma anche Ravenna, presto si riempirono di coloro che, avendone i mezzi, fuggivano da Cartagine, la metropoli che per bellezza rivaleggiava con Costantinopoli, spesso abbandonando ai Vandali ogni loro avere.
L’augusta madre mia sospettava che dietro la caduta di Cartagine ci fossero molte trame nascoste. Il magister militum dell’Oriente, al quale Bonifacio aveva affidato la difesa dell’Africa, non nascondeva la sua simpatia per il re vandalo ed era contrario a qualunque ini-ziativa militare nei confronti di Genserico: ciò non di meno, il mio augusto cugino Teodosio volle intraprendere ugualmente una spedizione per riscattare Cartagine dal giogo vandalo; infatti durante la X indizione, essendo consoli Eudossio e Dioscoro (442), allestì una grande flotta per distruggere in modo definitivo il potere del re Genserico: ma gli Unni, che sino ad allora erano rimasti in pace con l’impero d’Oriente e al quale offrivano i loro servizi, si sollevarono in armi e ne minacciarono le frontiere. “Sobillati dal patricius Aezio”, diceva l’augusta Placidia madre mia, e io credo che non errava, che tanto ad Aezio, quanto ad Aspar, un impero debole era ciò che faceva gioco ai loro ambigui disegni. Né in Gallia e in Hispania le cose andavano meglio, che gran parte di queste provincie erano in mano ai Visigoti, foederati solo di nome ma non nei fatti (e ora neppure più amici di Roma, ma avversari), oppure ai Suebi, che foederati non lo erano neppure di nome.
I Vandali, poi, non solo avevano espugnato Cartagine, ma si erano anche impadroniti della grande flotta ivi stanziata e con essa si diedero a fare razzie – come è costume dei barbari – nei borghi e nelle ville costiere, assaltando le navi onerarie che portavano alle nostre città i rifornimenti più necessari, e riducendo alla fame gran parte dell’impero d’Occidente e Roma più di ogni altra parte. Incapace di sconfiggerli, durante la X indizione, essendo consoli Eudo-sio e Dioscoro (442), l’augusto Valentiniano scese a patti con il re Genserico, riconoscendolo sovrano di tutte le terre conquistate e i popoli da lui conquistati, Mauritania, la Numidia, la Zeugitania e la Byzacena – insomma, l’Africa quasi per intero! – e senza neppur ottenere la sua sottomissione quale foederato di Roma, ma accettando che il re Vandalo fosse pienamente sovrano di queste terre, e solo quelle di minore valore restarono in possesso di Roma . A garanzia di pace eterna, Unerico, figlio del re Genserico, venne lasciato presso la nostra corte; di più, avendo egli per moglie una figlia del re visigoto Teodorico, ripudiò la sua sposa poiché il fratello mio gli promise in sposa la sua stessa figlia primogenita Eudocia.
In quegli stessi anni, soggiornava a corte un modesto poetastro protetto da Aezio poiché ne declamava le gesta, quasi fosse un novello Traiano, e a lungo lo accompagnò nelle sue venture guerriere: Flavio Merobaudo era il suo nome. Volendo forse ingraziarsi la mia augusta madre, oltre che il fratello mio delle cui grazie già godeva, in occasione del battesimo di Placidia (se la memoria non m’inganna) compose un poema nel quale, credendo di celebrare con esso anche la mia persona, declamò che “quando io siedo accanto al fratello mio, sono come la luna illuminata dalla luce del sole!” : non avrebbe potuto offendermi maggiormente! Io, Giusta Grata Onoria, illuminata da quel vanesio e arrogante fratello mio?! Quale orrore!
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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #23 on: July 08, 2011, 07:29:52 am »
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Nel meriggio di ieri, dopo la seconda orazione, uscii dall’oratorio e anziché fare ritorno al-la mia cella monacale, andai nel chiostro. Vi sono numerosi meli e susini; al centro, troneggia una vasca rettangolare alimentata dai pluviali che scendono dal tetto, nella quale galleggiano le ninfee; alcuni pavoni gironzolano impettiti, movendo il capo a scatti, mentre merli, tordi, passeri ed altri uccelli che non conosco svolazzano in questa oasi tranquilla nel centro dell’Urbe. In un angolo del chiostro vi è un pilone con una pittura che nella quale è raffigurato il volto addolorato e sofferente di Nostro Signore: davanti ad esso, un piccolo inginocchiatoio.
Io non sono mai stata molto fervente. Certamente, credo nella unica fede vera, che è quella della Chiesa romana, ma le sottigliezze delle dispute teologiche mi annoiano e mi paiono vane, presuntuose, come se potessi comprendere la maestà divina e i suoi misteri: amavo di più la lettura dei filosofi ellenisti che quella dei padri ecclesiali, ciò che il mio confessore tante volte mi criticava aspramente. Eppure ieri ebbi voglia di inginocchiarmi davanti a quell’immagine dolorosa e di continuare l’orazione interrotta poco prima. Mi parve di entrare in contatto con il Cielo stesso – non con Nostro Signore – ma forse con i suoi angeli, non sa-prei spiegarlo, però una pace grandissima cominciò a penetrare il mio corpo, ed allo stesso tempo una pacata tristezza priva di ogni moto di ribellione: le lacrime cominciarono a scor-rermi lungo le guancie, lentamente, senza alcun pianto, mentre il tempo trascorreva ma non lo avvertivo e, quando già iniziò ad imbrunire, cominciò a scendere una leggera pioggerellina, della quale non me ne avvidi, restando in ginocchio e profondamente immersa nella orazione. Se n’avvide, invece, una monaca che con garbo mi si avvicinò e mi coprì la testa e le spalle con un velo pesante, per riguardarmi dall’acqua, e lo fece in assoluto silenzio, come esigeva la regola, ma con un sorriso. Fu la prima volta che una monaca mi rivolse un sorriso.
Stamane, alla prima preghiera comune nell’oratorio, la madre superiore parlò dell’indulgenza di Nostro Signore, del perdono che sempre fa seguito al pentimento, dell’allegria che percorre il Cielo quando un’anima piange i propri peccati. Sicuramente le monache mi videro inginocchiata davanti all’immagine dipinta sul pilone, soprattutto videro le mie lacrime silenziose, e ne parlarono alla superiore, che a lei dicono ogni cosa. Credette che io piangessi poiché pentita delle mie azioni, ma sbagliava; non so neppure io perché il mio volto fosse solcato dalle lacrime poiché nel mio animo vi era assai più tranquillità che pena, e comunque non sono pentita di quanto ho fatto: so bene di non essere compresa, che le mia azoni paiono dettate dalla follia o dalla mancanza di decoro, ma non è così. Per questo, ora che sono tornata nella mia celletta, ho quasi affanno di temperare il calamo per rimettermi immediatamente all’opera su questa pergamena così bene acconciata, dove la punta inchio-strata scivola dolcemente, senza sbavare.

Il mio augusto fratello dopo che Licinia Eudossia ebbe questo parto così difficile, che mise a repentaglio la sua stessa vita e che le tolse ogni possibilità di avere ancora una figlio, quel maschio che potesse perpetuare il casato teodosiano, divenne assai più irascibile di quanto già non lo fosse: la ignorava, insidiava le mogli dei dignitari di corte, godeva di schiave e ancelle, si dedicava ad ogni vizio, i dadi e le corse più degli altri, e trascurava oltre ogni dire l’arte del governo. A lui, interessava essere l’imperatore, non farlo davvero. Delle udienze, apprezzava gli omaggi alla sua persona; ma poi detestava doversi occupare dei problemi che erano sollevati durante le stesse. Quando Aezio era presente a corte, l’augusta madre mia veniva ignorata; ma quando il magister militum era lontano, per lo più nelle Gallie a contenere gli sconfinamenti di Franchi e Visigoti o a soffocare le ribellioni dei bacaudi, allora nuovamente si rivolgeva all’augusta Placidia, voleva la sua presenza durante le udienze, ne richiedeva il consiglio, lasciava a le la stesura delle novellae. Lei se n’adombrava di essere rimessa sul trono solo quando l’odiato Aezio era assente: ma taceva per il bene dell’impero e del nostro casato, fiduciosa che un giorno l’imperatore Valentiniano avrebbe aperto gli occhi e visto quanto infido fosse quel patricius al quale dava tanto affidamento.
L’anno successivo alla nascita della piccola Placidia, era la X indizione, essendo consoli Eudossio e Dioscoro (442), il generale Ezio abbandonò la corte per recarsi nella Gallia Armorica per soffocare una ribellione e l’anno successivo sconfisse i Burgundi nella Savoia. L’augusta Placidia era più serena, avendo recuperato gran parte del suo ruolo. L’augusta Licinia Eudossia, invece, ormai del tutto ignorata dall’imperatore marito suo, dedicava molto tempo alle sue figliole, ma soprattutto intimava con me, sicché divenimmo come sorelle. Con la scorta che il decoro imponeva, di quando in quando frequentavamo le terme, anche se non quanto avremmo desiderato, poiché il vescovo Crisologo al quale la madre mia era tanto devota, criticava la frequentazione delle stesse da parte delle nobildonne e la riteneva peccami-nosa. L’augusta madre mia, era sempre più devota – “come l’augusta Pulcheria”, mormorava la cara Licinia – e quando non era impegnata nelle cose di Corte, trascorreva il suo tempo nell’orazione e nell’impegno per edificare Chiese e Basiliche sempre più belle: non sola a Ravenna, ma anche a Rimini, a Milano, nella stessa Roma, e se non faceva costruire nuove opere, restaurava le vecchie e le arricchiva di magnifici mosaici. Compì il voto che aveva assunto con l’evangelista Giovanni anche in nome di noi, suoi figli, quando al ritorno da Costantinopoli naufragò sulle coste dalmate, ed ora nella basilica ravennate che portava il suo nome vi era un grande mosaico nel quale era raffigurata una piccola galea in preda alla tempesta con le nostre tre persone a coperta e il ringraziamento per la grazia ricevuta: Sancto et beatissimo Apostolo Ioanni Evangelistae Galla Placidia Augusta cum filio suo Placido Valentiniano Augusto et filia sua Justa Honoria Augusta liberationis periculum maris votum solventes.
Quando giunse l’autunno della XIII indizione, essendo consoli Valentiniano e Nono (445), il generale Aezio fece ritorno a Corte e l’anno successivo l’augusto fratello mio volle onorarlo per la terza volta dandogli il consolato: mia madre era contraria, poiché solamente coloro che facevano parte della famigli imperiale potevano assumere il consolato per tre o più volte, ma l’augusto fratello mio non volle ascoltare ragioni ed ora che il patricius aveva fatto ritorno a Corte, l’augusta Placidia si trovava nuovamente estromessa dal governo. Non che il fratello mio amasse Aezio: ma credeva che solamente quel generale fosse in grado di tenere a bada gli Unni, la cui forza era tale da creare terrore su tutto il limes, ora che Attila, il nipote del defunto Rua, aveva ucciso suo fratello Bleda ed era rimasto duce incontrastato di tutte queste tribù, sconfiggendo anche gli eserciti dell’imperatore Teodosio, cugino mio, e obbligandolo a versargli un oneroso tributo affinché si astenesse dal saccheggiare le provincie dell’impero e re-stasse in pace. Il generale Aezio, che da bambino era cresciuto tra quei selvaggi e ne parlava la lingua come fosse la sua propria, vantava di essere amico del sovrano unno e che grazie a lui non solo la pars Occidentalis dell’impero era al sicuro, ma era con il suo appoggio che aveva potuto piegare i Visigoti e i Burgundi.
La madre mia sapeva bene che il magister militum soprattutto contava sui soldati che Attila medesimo gli cedeva, a caro prezzo!, e questo non da ora, che già al tempo della ribellione del tiranno Giovanni, quando il fratello mio vestì la porpora, l’augusta Placidia fu costretto a concedere al traditore Aezio il suo perdono, poiché era giunto a Ravenna accompagnato da 60.000 Unni. “Potessimo trattare direttamente con Attila” – mi diceva la madre mia – “senza dover ricorrere all’intermediazione di Aezio! Se Attila mostra di essere uomo di parola fedele con Aezio, perché non dovrebbe essere altrettanto sincero con noi? Ma come poter contattarlo direttamente, senza che Aezio se n’avveda?”. I legati che tornavano dalla Pannonia, ci raccontavano che gli Unni stavano mutando rapidamente i loro costumi selvaggi: ora costruivano dimore di legno, indossavano vesti tessute e pulite, mangiavano cibi cotti e non più carni cru-de.
Prisco di Panion stette presso di loro quale legato della Corte di Costantinopoli e al suo ritorno raccontò di aver pranzato “abbondanti pietanze servite su piatti d'argento, sebbene Attila mangiasse soltanto della carne da un tagliere di legno e dimostrasse in tutto una grande mode-stia, bevendo da una coppa di legno, mentre agli ospiti furono dati calici d'oro e argento ”. E aggiungeva ancora che, a differenza di un tempo, ora gli Unni usavano “abiti molto semplici ma puliti, con la spada al fianco, anche se le borchie delle calzature e la bardatura del cavallo non erano adorne con guarnizioni d'oro, pietre preziose o di altro materiale pregiato, come quelle degli altri Sciti ”. Raccontava pure di “Cerea, moglie di Attila e amministratrice del suo palazzo e di come lo avesse invitato alla sua tavola, facendosi incontro a lui tutta gaia e generosa, accompagnata da un gran stuolo di principi  sciti; di come fosse magnifico il convito per l’apparato delle vivande e accompagnato dagli scherzi e risa di quella principessa ”. Attila stesso, diceva ancora il legato Prisco, era “basso di statura, con un largo torace e una testa grande; i suoi occhi erano piccoli, la sua barba sottile e brizzolata e aveva un naso piatto e una carnagione scura, che metteva in evidenza la sua origine: vestiva in modo modesto, con una veste priva di ricami che in nulla si distingueva da quella degli altri dignitari della sua corte” . In somma, più ascoltavano le notizie che portavano i legati, ma anche i commercianti e i preti che visitavano la Pannonia e la corte del re unno, e più ci rendevano conto che sareb-be stata cosa molto saggia trattare direttamente con Attila senza più subire il ricatto del gene-rale Aezio, se solamente fosse stato possibile contattarlo a insaputa di questo, ma anche del mio augusto fratello.
L’augusta Placidia riteneva che fosse Aezio chi conduceva a passo a passo l’imperatore Valentiniano, ma che per lei prima di ogni altra cosa era il suo figliolo, verso la dannazione eterna. Vedeva bene i vizi in cui indugiava, ai quali se n’aggiunse uno ancora peggiore, la su-perstizione che è parente prossima dell’idolatria, ma attribuiva questo comportamento non al-la malvagità dell’animo dell’imperatore, bensì all’incoraggiamento del generale che quanto più l’augusto si fosse dato ai turpi piaceri, tanto più lui avrebbe avuto mano libera per governare a suo piacimento. Io non credo che la madre mia fosse nel giusto, poiché il patricius Ae-zio assai spesso si trovava lontano dalla corte, ma non per quello l’imperatore mutava in virtuosa la sua vita viziosa.
Negli ultimi due o tre anni, mia madre era molto invecchiata: aveva ormai oltre cin-quant’anni, è vero, ma pareva trasformata in una donna centenaria. Soffriva per dei dolori terribili, ma diceva di esserne lieta e li accettava volentieri in quanto l’avvicinavano a Nostro Signore morto sulla Croce. Pensava di dover espiare una colpa terribile – e lo diceva anche – ma non compresi mai a cosa si riferisse e se le domandavo al proposito, diventava ermetica. Tutto quanto succedeva di terribile nel mondo, lo vedeva quale castigo di Dio per la sua colpa: così anche per il terribile terremoto che avvenne durante la XIV indizione, essendo consoli Ezio e Simmaco (446), quello che abbatté le orgogliosa mura di Costantinopoli esponendola agli attacchi degli Unni, disse che Dio voleva castigarla per i suoi peccati e domandava a Lui di non punire gli innocenti a causa di lei. Credo che aver sentenziato Serena, moglie di Stilicone, colei che le fece da madre, pur sapendola innocente fosse una delle colpe che la tormentavano; ma vi era d’altro, poiché accennò una volta al fatto che per sua negligenza il figlio suo Teodosio, quello che ebbe con il re visigoto e che morì in età tenerissima, era stato escluso dalla presenza divina, che solo espiando lei stessa le sue colpe e onorando Nostro Signore, edificando chiese e oratori, donando oro e gemme per ornare gli altari, in questo modo anche tra quegli innocenti che senza loro colpa non avevano avuto il dono di conoscere la vera religione, la bontà divina di quando in quando ne avrebbe privilegiato qualcuno e l’avrebbe accolto nel suo regno celeste. Così le aveva detto Leone, il vescovo di Roma.
Mettendo insieme quelle poche parole contraddittorie che di tanto in tanto le sfuggivano di bocca, alla fine mi parve di comprendere che il cruccio dell’augusta madre mia era che aveva qualche buona ragione per dubitare che l’anima del suo figliolo Teodosio fosse seduta pros-sima alla mensa del Signore, come si conviene al primogenito di un’imperatrice: forse perché il suo corpo giaceva sepolto in mezzo agli eretici, o forse aveva di che dubitare che il battesimo medesimo fosse stato impartito in modo regolare, o che il ministro che lo officiò potesse essere colpevole del terribile delitto dell’eresia. Qualunque fossero le ragioni del penare della sua anima, l’augusta Placidia aveva trasformato il sacro palazzo in una cupa sacrestia, dove dall’alba al tramonto c’erano cento occasioni perché ci si raccogliesse in preghiera: ovunque vi erano immagini pietose e le candele votive cedevano con le loro tremolanti fiammelle incenso ai saloni. Ridere era indecoroso e spesso pareva che lo fosse persino l’allegria. Anche la cara augusta Licinia Eudossia, che per me era una sorella, quando nessun altro ascoltava si lamentava dell’eccesso di zelo religioso della madre mia, che se prima aveva preso l’augusta Pulcheria a modello virtuoso, ora la sopravanzava di molto. Poiché la vita a corte mi era così divenuta intollerabile, pretesi dal mio augusto fratello di avere un appartamento mio proprio dentro le mura del sacro palazzo, ed egli esaudì la mia richiesta poiché mi allontanava viepiù dalla Corte . Ciò avvenne durante la XV indizione, essendo consoli Ardaburio e Callipio (447).
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Offline antvwala

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Re: Onoria e Attila secondo Antvwala
« Reply #24 on: July 08, 2011, 07:33:30 am »
"VIII

Dopo la frugale colazione, ho fatto ritorno alla mia severa celletta monacale. Un pane d’orzo, una tazza di latte e un pezzetto di formaggio di capra, mentre le monache si alternano nella lettura delle preghiere. Anche se mi fu offerto di pranzare nella mia celletta, scegliendo cibi più consoni alla dignità di un’augusta, scelsi di compartire con le religiose il loro desina-re: allora decisi così sperando di ottenere simpatia e complicità, e che queste mi fornissero infine qualche opportunità per mutare il mio stato, ma ben presto mi resi conto di quanto fossi prigioniera in questo convento e di quanto fossero incorruttibili i miei carcerieri; ma sono contenta di aver fatto questa scelta, che non mi pesa poiché l’augusta Placidia mi abituò sin da piccola al cibo più semplice e al sacrificio e non mi piacerebbe, isolandomi, che mi credessero arrogante: io sono ben cosciente della mia dignità di augusta, alla quale non rinuncerei per nessuna ragione, ma non sono arrogante, né lo sono mai stata. Poi stamane, alla conclusione del pasto, la madre superiora mi ha proposto di essere io, domani, a leggere l’orazione, e me ne sono rallegrata.
So che si avvicina il giorno – forse domani, forse oggi stesso – quando entreranno nella mia celletta un paio di bucellari mandati dall’imperatore fratello mio, e mentre uno mi terrà immobilizzata, l’altro stringerà un filo sottile intorno al mio collo, sino a che cadrò esamine al suolo: ma non ho paura di morire e quando arriveranno, li affronterò con coraggio, con quella dignità che ben corrisponde ad un’augusta. Ma prima sento il bisogno di riconciliarmi con Nostro Signore, di sentirmi meno lontana da lui. So di essere colpevole per aver cospirato contro il fratello mio, non contro l’impero ma contro l’imperatore: ma quanto più grande della mia è la sua colpa!

L’imperatore Valentiniano ora mi accusa che ho voluto andare a vivere nel mio appartamento per dare sfogo alla mia lussuria, che sin da giovanissima non sapevo frenare i miei più turpi istinti e le mie indecorose voglie. Quanto è falsa la sua accusa! Mi confonde con se stesso: lui era quello che non seppe mai frenare la sua lussuria, i suoi turpi istinti e le sue indecorose voglie. Io, invece, tenni fede a quel voto di castità assunto quando avevo appena dodici anni, Ma, allora, immaginavo che – come l’augusta cugina Pulcheria – lo avrei affiancato nel governo della repubblica, che sarei stata seduta accanto a lui nel salone del trono e che lui a-vrebbe fatto caso dei miei saggi consigli. Sì: perché l’avrei consigliato con saggezza e con amore per lo stato e con rispetto per le sue istituzioni. Ma lui, invece, mi ha completamente esclusa e ora, vedendo le due bimbette dell’augusta Licinia Eudossia, la mia cara cognata, comprendo appieno quanto persi, quanto fu ingiusto questo voto di castità perpetua.
Voglio regnare anch’io, è giusto che così sia perché ne ho l’intelligenza e la capacità, e pensavo che se non avessi potuto farlo insieme a mio fratello, l’avrei fatto con mio figlio, che lui avrebbe un giorno ereditato l’impero – l’una e l’altra parte nuovamente riunite sotto un unico scettro, il suo – e io sarei stata al suo lato, prima come reggente, poi come consigliera. Un figlio che perpetuasse il casato dei teodosidi e dei valentinianidi, giacché né l’imperatore Teodosio, cugino mio, né l’imperatore Valentiniano, fratello mio, avevano discendenza maschile, e neppure avrebbero potuta averla nel futuro. Ecco, dunque, che un figliolo mio, che aveva il loro stesso sangue, avrebbe potuto essere adottato, o dall’uno o dall’altro (ma soprattutto pensavo nell’augusto Teodosio, che sarebbe stato il migliore dei padri possibili) e un giorno io sarei stata la madre dell’imperatore. Questo pensavo allora e questo pensiero fu la mia sciagura.
Fu per questo che sedussi Eugenio, il maggiordomo del mio appartamento, non più giovane ma ambizioso quanto necessario, non per il desiderio libidinoso di infrangere il mio voto di castità. Inizialmente egli fece resistenza alle mie lusinghe, ma poi cedette ed ebbe il dono del mio corpo virginale e gli mentii, assicurandogli che sapevo come evitare le conseguenze del nostro amplesso, quando invece erano esse il mio progetto. Fu così che alla fine dell’estate della VI indizione, essendo consoli Zenone e Postumiano (448) il mio stato divenne manifesto e l’augusta madre mia Galla Placidia se n’avvide e ne ebbe scandalo. Glie ne diedi spiegazio-ne e comprese i motivi del mio gesto e, sebbene lo considerasse frutto di  arrogante pazzia, promise di fare quanto possibile per aiutarmi.
L’augusta Placidia ne parlò, dunque, con l’imperatore Valentiniano, spiegandogli i motivi di quanto avevo fatto e suggerendogli che per quanto esecrabile fosse il mio gesto, tuttavia vi era la possibilità che generasse un erede maschio per l’impero, un erede che lui stesso avrebbe potuto adottare e così avere un figlio al quale cedere un giorno il globo crucigero che ora impugnava. S’adombrò il fratello mio e ne menò grande scandalo, ma pure fece caso alle sue pa-role. Ordinò ch’io fossi segregata nel mio appartamento, con l’unica compagnia delle schiave al mio servizio che volle scegliere lui stesso ad una ad una affinché fossero di sua esclusiva fiducia, e senza che io potessi ricevere altra visita se non quella delle auguste Placidia e Licinia Eudossia. Eugenio, l’incolpevole maggiordomo, fu arrestato e immediatamente decapita-to.
All’imperatore Valentiniano non parve errato il consiglio della madre mia di adottare questo mio figliolo qualora fosse stato un maschio: tanto che ne parlò con l’augusta Licinia Eudossia, che ne fu lieta. Dunque, tutto sarebbe andato in altro modo, almeno in parte consono ai miei progetti, se il generale Aezio al finale di quello stesso anno non fosse rientrato infaustamente a Corte.
Nel gennaio della VII indizione, essendo consoli Protogene e Asturio (449), nacque mio figlio. Era un maschio e gli diedi per nome Teodosio: così fu battezzato dalla madre mia che mi assistette durante il parto; ma subito dopo, per ordine di mio fratello, fu atrocemente strappato dalle mie braccia.  Non ebbi il tempo neppure di sapere cosa ne fosse stato del mio bambino, che la madre mia mi condusse a Classe, dove una veloce galea mi attendeva per allontanarmi rapidamente da Ravenna: questo era l’unico modo per salvare la mia vita, mi disse l’augusta Placidia raccomandandomi di non chiedere mai quale fine avesse fatto il figlio mio e che sarebbe stato assai meglio se l’avessi dimenticato.
L’augusta madre mia mi accompagnò a bordo, ove ero la sola viaggiatrice, accompagnata da due ancelle e due eunuchi al suo servizio. Mi consegnò una bolla sigillata destinata all’imperatore Teodosio, nipote suo e cugino mio, ordinandomi di non aprirla per nessuna ra-gione e di consegnarla unicamente nelle stesse mani dell’imperatore. Disperavo per avere notizie del mio bambino e maledivo il fratello mio, che ora vedevo in tutta la sua crudeltà; ancora una volta l’augusta Placidia non volle dirmi nulla di mio figlio, invitandomi a dimenticarlo – come se una madre potesse dimenticare il proprio figlio! – e difese il fratello mio: “Non lui è malvagio, ma il generale Aezio. La colpa dell’imperatore è fargli caso, la forza del generale è avere gli Unni al suo servizio. Siano maledetti quei terribili pagani che negano la religione vera e danno rifugio agli eretici! Ma la loro forza è irresistibile e solo le sue inespugnabili mura impedirono che entrassero in Costantinopoli per saccheggiarla senza misericordia alcuna. Il fratello tuo, che Dio protegga sempre l’imperatore Valentiniano!, è vittima della sua propria debolezza e se cerchi un colpevole, allora guarda il mio volto malato, che io lo crebbi vanesio e senza virtù, io fui cieca di fronte ai suoi difetti, guardando solamente i suoi pregi”. Poi se n’andò, che il tempo non era adatto alla navigazione, le tempeste invernali erano in agguato e la dea Iside Faria non proteggeva più la navigazione.
Raggiungemmo rapidamente Salona: Aquilone, il vento settentrionale che tanto spesso è causa di naufragio, questa volta ci fu benigno durante l’imprudente attraversata dell’Adriatico, e due giorni più tardi trovammo sicuro rifugio nel porto di Salona. Via terra, quindici giorni più tardi rivedevo le imponenti mura di Costantinopoli, interamente riedificate dopo il terribile terremoto avvenuto solamente tre anni prima, quando Nostro Signore volle castigare i peccati dei Romani.
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